Emma e Giulio Turchi, Se potessi scriverti ogni giorno. Lettere 1927-1943, a cura di Gianfranco Porta, Roma, Donzelli Editore, 2013
(Questo testo è apparso sul Corriere della Sera – Brescia martedì 3 dicembre 2013)
Più di mille lettere, intercorse dal 1925 al 1943 fra Giulio Turchi, carcerato e poi condannato al confino, e la moglie Emma. Una scelta delle parti più significative di questi scritti – insieme a fotografie che accompagnano il testo e sono testo a loro volta, come nelle opere di Sebald – è confluita in Se potessi scriverti ogni giorno, un libro curato da Gianfranco Porta per Donzelli. Studioso della storia del movimento operaio bresciano e dei militanti della Sinistra, Porta aveva già ricostruito le vicende di altre figure di bresciani caduti vittima dell’apparato repressivo del regime – come Domenico Viotto, Antonio Forini, Oscar e Gino Abbiati – fino a individuare nell’esperienza del confino un terreno di indagine privilegiato. Un’indagine attualmente giunta alla fase del bilancio finale, della scrittura di un saggio impegnativo che leggeremo fra non molto, ma che intanto ha prodotto questo risultato: alla lettura del fascicolo riguardante Giulio Turchi sono seguiti il contatto e poi la collaborazione con la figlia Gioia, custode delle carte delle lettere dei genitori. Un carteggio che si discosta da quelli già conosciuti, i cui autori sono nella maggior parte degli intellettuali. Giulio è invece un operaio, comunista, ed Emma una sarta che non ha finito le elementari. Quando gli viene tolta la libertà lui ha 25 anni, lei 20. Si sono sposati meno di un anno prima. Da quel momento, l’aprile del’27, scriversi rappresenterà per anni l’unico tramite che rende possibile non semplicemente la tenuta del loro rapporto, ma anche l’approfondirsi di un “dialogo in cui – sottolinea il curatore – si parla dell’amore e della solitudine, del ricordo e della speranza, del dolore e della felicità”.
Non solo un libro per i cultori della ricerca storica dunque, ma un documento che può esser letto come testimonianza di una lunga vicenda d’amore. Un romanzo epistolare che, fin dal modo in cui il protagonista si rivolge alla compagna, richiama altri carteggi: “dolcissima amica”, “mia anima seconda”, “la mia buona piccola mammina, mia buona amica, sorella, la mia tutto”, oggetto di un amore “da fratello da compagno e da tutto”. Come non essere tentati di lasciar correre il pensiero a uno dei più intensi fra gli scambi epistolari fra amanti, quello in cui Eloisa scrive “al suo signore, anzi padre, al suo sposo, anzi fratello”, dichiarandosi “la sua sposa, anzi sorella”, e Abelardo le risponde chiamandola sua “inseparabile compagna”? Coniugi condannati a vivere lontani anche quelli, costretti ad affidarsi alle lettere per “dividere ogni dolore e ogni gioia” proprio come Giulio ed Emma, che nei loro messaggi cercano “un po’ di requie per l’animo esulcerato” e la conferma che i loro “pensieri si incontrano”, trovandovi fin l’illusione di un contatto fisico: “quella carta è stata in mano a te, quelle righe sono state vergate dalla tua mano e nel vederle vedo tutto questo”.
L’amore come dimensione ideale, dunque? come fuga dalle traversie e dalle sofferenze? Non è questo il caso: al senso concreto della quotidianità che contraddistingue Emma, alla sua attenzione alle necessità che prosaicamente la vita pone, tanto più a chi deve sopportare le privazioni, anche materiali, che la segregazione comporta, fanno riscontro in Giulio la coscienza orgogliosa della propria integrità morale e una capacità di autocontrollo che potrebbero ridurne il profilo a quello stereotipato del militante trincerato nella sua fede. Sennonché, ci troviamo di fronte a un uomo per il quale la domanda su “come vivere la vita è una questione che (…) occupa ogni giorno parte del (suo) tempo”. Lungi dal dolersi di questa sua attitudine problematica, spesso malinconica, Giulio, memore della lezione del materialismo storico, se ne fa una ragione: “le vicende della mia vita mi hanno modellato così”. Ma la tendenza a considerare da un punto di vista filosofico le avversità e la sofferenza attinge a un orizzonte più vasto, ora caratterizzato da motivi stoici ora da convinzioni che richiamano da vicino i toni della filosofia dell’esistenza: “non poteva trattarsi per me di andare alla ricerca del vero senso della vita per poi uniformarvi la mia, ma (…) di dare alla mia vita uno scopo, per (…) evitare così di farmi soffocare dalla noia e dalla stanchezza.” Non è dunque per far trionfare un senso certo del mondo che quest’uomo ha conformato la sua esistenza alla militanza e alle sue possibili drammatiche conseguenze, ma proprio a partire dal non senso: non sono generosità, altruismo, fiducia infallibile ad animare quest’uomo, non è un eccesso di vita che l’ha motivato e continua a sostenerlo, ma una mancanza, da lui avvertita come tratto che lo distingue dagli altri, cifra non della sua eccezionalità ma della sua unicità. Della sua solitudine, anche. Un senso di separatezza che l’ininterrotto colloquio con una persona, con cui si è resa possibile “una fusione affettiva e totale degli animi”, ha saputo orientare, illuminare di un significato.