Non per imparare a scrivere, ma per capire perché si scrive conviene leggere quello che chi si dedica a questa pratica ha detto della propria attività. Non sempre però, o raramente anzi, si trovano spunti illuminanti nei testi che programmaticamente si propongono di rispondere alle domande decisive: perché e per chi si scrive? da dove nasce il desiderio di scrivere e il piacere di farlo?
Il più delle volte è in passaggi brevi, di fatto o apparentemente incidentali – in racconti, romanzi, saggi che parlano d’altro – che si trovano spunti interessanti.
Ci sono però eccezioni. Come lo scritto di María Zambrano del quale si propongono qui alcuni passaggi essenziali (il testo integrale si può leggere in María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Milano, Cortina, 1996).
Se lo scopo di questa sezione del nostro sito è quello di raccogliere, oltre che riflessioni e resoconti, anche citazioni più o meno corpose attinenti all’esperienza dello scrivere, iniziare con la rilettura delle risposte della Zambrano alla questione che lei stessa pone, perché si scrive, può essere un buon inizio.
(secondorizzonte/c.s.)
MARÍA ZAMBRANO
Perché si scrive
Scrivere è difendere la solitudine in cui ci si trova; è un’azione che scaturisce soltanto da un isolamento effettivo, ma comunicabile, nel quale, proprio per la lontananza da tutte le cose concrete, si rende possibile una scoperta di rapporti tra esse.
E’ una solitudine, però, che non ha bisogno di essere difesa, che non ha bisogno cioè di giustificazione. Lo scrittore difende la sua solitudine, rivelando ciò che trova in essa e in essa soltanto.
Se esiste un parlare, perché scrivere? Ma l’espressione immediata, quella che sgorga dalla nostra spontaneità, è qualcosa di cui non ci assumiamo interamente la responsabilità, perché non emana dalla totalità integrale della nostra persona; è una reazione sempre dettata dall’urgenza e dalla sollecitazione. Parliamo perché qualcosa ci sollecita e ci sollecita dall’esterno, da una trappola in cui ci cacciano le circostanze e da cui la parola ci libera. Grazie alla parola ci rendiamo liberi, liberi dal momento, dalla circostanza assediante e istantanea. Ma la parola non ci pone al riparo, né pertanto ci crea, anzi, il suo uso eccessivo produce sempre una disgregazione; per mezzo della parola vinciamo il momento e subito dopo siamo vinti da esso, dalla successione di momenti che superano il nostro assalto senza lasciarci rispondere. È una continua vittoria, che alla fine si trasforma in sconfitta.E da questa sconfitta intima, umana, non di un singolo uomo ma dell’essere umano, nasce l’esigenza di scrivere. Si scrive per rifarsi della sconfitta subita ogni qualvolta abbiamo parlato a lungo.
La vittoria, del resto, può darsi solo dove si è subita la sconfitta, nelle stesse parole. Queste stesse parole avranno ora, nello scrivere, una diversa funzione: non serviranno più il momento oppressore, non serviranno più a giustificarci di fronte all’assalto del momentaneo, bensì, partendo dal centro del nostro essere raccolto in se stesso, ci difenderanno di fronte alla totalità dei momenti, di fronte alla totalità delle circostanze, di fronte alla vita intera.
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Salvare le parole dalla loro vanità, dalla loro vacuità, dando loro consistenza, forgiandole durevolmente, è lo scopo che persegue, anche senza saperlo, chi scrive davvero.
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Scrivere diventa il contrario di parlare: si parla per soddisfare una necessità momentanea immediata e parlando ci rendiamo prigionieri di ciò che abbiamo pronunciato; nello scrivere, invece, si trova liberazione e durevolezza – si trova liberazione soltanto quando approdiamo a qualcosa di durevole . Salvare le parole dalla loro esistenza momentanea, transitoria, e condurle nella nostra riconciliazione verso ciò che è durevole, è il compito di chi scrive.
Ma le parole dicono qualcosa. Che cosa vuoi dire lo scrittore e a quale scopo? Perché e per chi?
Vuole dire il segreto, ciò che non si può dire a voce perché troppo vero; le grandi verità non si è soliti dirle parlando. La verità di ciò che accade nel seno nascosto del tempo è il silenzio delle vite, e che non può essere detto. “Ci sono cose che non si possono dire”, ed è indubitabile. Ma è proprio ciò che non si può dire che bisogna scrivere.
Scoprire il segreto e comunicarlo sono i due stimoli che muovono lo scrittore.
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Ansia di svelare, ansia incontenibile di comunicare ciò che si è svelato; duplice tafano che assilla l’uomo, facendo di lui uno scrittore. Quale doppia sete è mai questa? Quale essere incompleto è costui che produce in sé tale sete, che si placa solo scrivendo? Scrivendo soltanto? No; solo per mezzo dello scrivere. Quello che lo scrittore persegue, è il puro scritto o qualcosa che si ottiene per mezzo dello scritto?
Lo scrittore esce dalla sua solitudine per comunicare il segreto. Quindi non è già più lo stesso segreto conosciuto da lui quello che lo colma, dato che ha bisogno di comunicarlo. Sarà piuttosto questa comunicazione? Se è così, l’atto dello scrivere è solo un mezzo, e lo scritto, lo strumento forgiato. Ma a caratterizzare lo strumento è il fatto che viene forgiato in vista di qualcosa, e questo qualcosa è ciò che gli conferisce la sua nobiltà e il suo splendore. E’ nobile la spada perché è fatta per il combattimento, e la sua nobiltà cresce se la mano d’opera l’ha forgiata con maestria, senza che questa bellezza di forma scalzi il suo primo significato: l’essere stata creata per la lotta.
Lo scritto è ugualmente uno strumento di cui si serve quest’ansia incontenibile di comunicare, di “pubblicare” il segreto trovato, e la bellezza formale che possiede non può sottrargli il suo primo significato: produrre un effetto, far sì che qualcuno venga a sapere qualcosa.
Un libro, finché non viene letto, è soltanto un essere in potenza, in potenza come una bomba inesplosa. Ogni libro deve avere qualcosa della bomba, di un evento il cui verificarsi minaccia e, anche semplicemente con la sua vibrazione, mette in risalto la falsità.
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È un atto di fede lo scrivere, e come ogni fede, di fedeltà. Lo scrivere richiede fedeltà prima di ogni altra cosa: essere fedeli a ciò che chiede di essere tratto fuori dal silenzio. Una cattiva trascrizione, un’interferenza delle passioni dell’uomo che è scrittore distruggeranno la fedeltà dovuta. È il caso dello scrittore opaco, che interpone le sue passioni tra la verità scritta e coloro a cui sta per comunicarla.
Il fatto è che lo scrittore non deve esibire se stesso, anche se da sé trae ciò che scrive. Trarre qualcosa da sé è tutto il contrario dell’esibire se stesso. E se il trarre da sé con polso sicuro l’immagine fedele dà trasparenza alla verità dello scritto, il porre con vuota incoscienza le proprie passioni davanti alla verità l’appanna e l’oscura.
La fedeltà, per essere conseguita, esige una totale purificazione dalle passioni, che devono essere messe a tacere per far posto alla verità. La verità ha bisogno di un grande vuoto, di un silenzio in cui poter prendere dimora senza che nessun’altra presenza si mischi alla sua, falsandola. Chi scrive, mentre lo fa, deve far tacere le proprie passioni e, soprattutto, la sua vanità.
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Così, l’essenza dell’uomo scrittore si forma in questa fedeltà con cui egli trascrive il segreto che rende pubblico, quale uno specchio fedele della sua figura, senza permettere alla vanità di proiettare la sua ombra, e di sfigurarla.
Se infatti lo scrittore rivela il segreto non è per un atto di volontà, né per l’ambizione di mostrarsi qual è (cioè come non riesce a essere) davanti al pubblico. In realtà esistono segreti che esigono di per se stessi di essere rivelati, resi pubblici.
Quel che si pubblica serve perché qualcuno, uno o tanti, viva tenendo presente quanto è venuto a conoscere, perché viva in modo diverso dopo averlo conosciuto; serve a liberare qualcuno dalla prigione della menzogna, o dalle nebbie del tedio, che è la menzogna vitale.
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Ci sono segreti che hanno bisogno di essere resi pubblici e sono quelli che visitano lo scrittore approfittando della sua solitudine, del suo effettivo isolamento, che gli fa avere sete. Di un essere assetato e solitario ha bisogno il segreto per posarvisi sopra, chiedendogli, nel dargli progressivamente la sua presenza, che la vada fissando, per mezzo della parola, in tracciati durevoli.
Un essere appartato da sé e dagli uomini, e persino dalle cose, poiché solo nella solitudine si sente la sete di verità che colma la vita umana, una sete di riscatto di vittoria sulle parole che ci sono sfuggite tradendoci; sete di vincere per mezzo della parola gli istanti vuoti trascorsi, il fallimento incessante di lasciarci andare attraverso il tempo.
In questa solitudine assetata anche la verità, benché occulta, si rivela, ed è proprio lei che chiede di essere messa in chiaro. Chi l’ha vista a poco a poco non la conosce se non la scrive, e la scrive perché gli altri la conoscano. A rigore, se si mostra a lui, non è a lui in quanto individuo determinato, ma in quanto individuo del medesimo genere di coloro che devono conoscerla; e gli si mostra approfittando della sua solitudine e ansia, del suo far tacere lo schiamazzo delle passioni. Ma non è propriamente a lui che essa si mostra. Dal momento che lo scrittore conosce a seconda che scrive e scrive già per comunicare agli altri il segreto trovato, è in realtà a questa comunicazione, a questa comunità spirituale dello scrittore con il suo pubblico che la verità si mostra.
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Tale comunanza tra scrittore e pubblico, contrariamente a quanto si crede, non si forma dopo che il pubblico ha letto l’opera pubblicata, bensì prima, nell’atto stesso in cui lo scrittore scrive la sua opera. La comunanza dello scrittore con il suo pubblico si crea pertanto nel momento in cui si rende manifesto il segreto. E pubblico esiste prima dell’eventuale lettura dell’opera, esiste dall’inizio dell’opera, coesiste con essa e con lo scrittore in quanto tale. E in realtà riusciranno ad avere un pubblico solo quelle opere che l’avevano già dal principio. Lo scrittore perciò non ha bisogno di porsi il problema dell’esistenza di tale pubblico, dato che esso esiste insieme a lui dacché ha cominciato a scrivere. Questa è la sua gloria, che sempre giunge in risposta a chi non l’ha cercata né desiderata, anche se la presagisce e la desidera per trasformare con essa la molteplicità del tempo, trascorso, perduto, in un solo istante, unico, compatto ed eterno.