“Ma lo si vede dappertutto…”: questo il primo commento, il più diffuso quando il cantiere era all’ultima fase e l’edificio aveva già raggiunto la sua dimensione definitiva. Un commento generico, inconcludente. Con quel ma iniziale però, rivelatore non tanto di una critica, certo, quanto piuttosto di una perplessità, o di un disagio indistinto, come quello che si avverte quando andando verso piazza Repubblica, da via Ugoni come da via Vittorio Emanuele, la prospettiva non è più libera, segnata al più dall’esile serbatoio pensile dell’ATB che si stagliava nel cielo proprio lì, dove adesso lo sguardo si ferma contro la nuova imponente costruzione.
L’immagine giusta me la dà un amico, uno che se ne intende, un architetto: fa venire in mente quelle grandi navi che passano nel canal Grande a Venezia, più alte del Palazzo Ducale.
Si sa: la gente – chi la città la abita per quel che è, e diventa – resta indietro rispetto ai discorsi di chi la città la fa. La progetta, la fabbrica, ne regola la forma e la crescita (quando ne ha la volontà, quando ci riesce).
Sempre stato così? Si è sempre dovuto rilevare questo ritardo? Si potrebbe sostenerlo. Che la forma della città cambi più in fretta del cuore dei mortali, Baudelaire lo diceva un secolo e mezzo fa
Però. Però, non 150 anni fa, ma 30, c’è stato qualcuno, nella nostra città, abbastanza autorevole per dire pubblicamente che il Crystal palace di Brescia Due non doveva arrivare all’altezza prevista: non tanto perché se no avrebbe superato di sei metri il Pirellone (e la Regione non nascose che questo non lo gradiva), ma perché alterava lo skyline della città. Si vedeva dappertutto insomma. Un grattacielo, invece del duomo con la sua lanterna.
Sarebbe stato più bello il Crystal palace se realizzato secondo il progetto originario di Bruno Fedrigolli? Questa è un’altra storia. Così come non è sul bello o il brutto che si può vedere nel nuovo edificio sorto accanto al Freccia Rossa che vale la pena di fermarsi, ma sulla qualità della sua presenza, e le intenzioni che esplicitamente hanno motivato l’intervento, sintetizzate nel nome stesso che lo distingue: Skyline 18. Un nome che programmaticamente dichiara una volontà. Skyline 18 – si legge in un sito dedicato – è “un monolite che definisce il suo ruolo da protagonista nell’impianto urbano in cui si colloca”, e che proprio grazie alla sua forma architettonica – di cui la mole non certo è un tratto secondario – sa “arricchire di contenuti e suggestioni” la forma urbana. Del resto, lo si era detto già la sera della presentazione del progetto, tre anni fa, al Teatro Grande: Skyline 18 “si candida a diventare un nuovo simbolo di Brescia, con i suoi diciotto piani in vetro, pietra e acciaio”.
E dunque? Da dove viene l’idea che il profilo – pardon, lo skyline – della città debba restare uguale a com’era? E’ pur cambiato anche in passato, magari più lentamente ma è cambiato. E allora perché questa indistinta ostilità nei confronti della città verticale? Non saremo per caso dei conservatori, come si dice oggi? Non replicheremo in altra forma l’atteggiamento del “non nel mio guardino” (bene i grattacieli ma altrove, non a Brescia)?
Potremmo finirla qui. Non fosse per le chiacchiere che mi è capitato di ascoltare proprio lì. Sotto il monolite. Tre uomini che fumavano nella nuova piazza davanti al Freccia Rossa, naso all’aria a guardarlo, il monolite: “Ma no, bisogna lasciar passare un po’ di tempo: a me non dispiace…”. “Be’ – fa l’altro, più problematico – si vedrà quando sarà finito.” “Ma è finito!”, interviene il terzo. “Ma figurati: non lo lasceranno mica così là in cima, coi tubi che si vedono e i vetri tutti storti che sembra che vogliano staccarsi da un momento all’altro … Sono provvisori, te lo dico io”. E quell’altro, serio, gli allunga la mano: “Scommetti che è finito così?” Niente da fare. “No, non ci credo: vuoi che un bestione del genere, appena finito sembri già lì che viene giù?”
Mi restano in mente queste parole. Mi sembra d’averle già sentite. No, non sentite: lette. Dove? Ci arrivo: Sebald. Un libro strano, Austerlitz. Cerco il passaggio, l’ho sottolineato di sicuro: “di un edificio enorme nessuno potrebbe sostenere a mente fredda che è di suo gradimento. Nel migliore dei casi lo si guarda meravigliati, e questa meraviglia è una forma preliminare di terrore, perché naturalmente qualcosa ci dice che gli edifici sovradimensionati gettano già in anticipo l’ombra della loro distruzione e, sin dall’inizio, sono concepiti in vista della loro esistenza di rovine.”
Bello. Folgorante. Potrebbe essere finita davvero stavolta.
Invece no: c’è qualcosa che non va. E non si tratta del fatto che quegli ultimi piani coi vetri attaccati a quel modo rappresentano – tornando alle presentazioni e ai commenti di Skyline18 – “una superficie diamantata” (e non a caso dunque quella serata al Grande era intitolata “In the Sky with Diamonds”). No, sento che non è questo. Ci sono: non è al lento prodursi delle rovine che fan pensare, ma all’evento catastrofico, improvviso. Le rovine si possono anche costruire, ci mancherebbe: ce l’ho negli occhi la falsa torre in rovina di quel negozio di mobili anticati appena fuori città. Ma qui è un’altra cosa. Le opere, si sa, si espongono al giudizio, creano suggestioni – in questo caso lo si voleva proprio, no? – e dunque, quale che fosse l’intenzione dell’architetto, quelle vetrate fan pensare, a me perlomeno, a qualcos’altro. Non al processo lungo in cui consiste la trasformazione in rovina di un edificio, come si potrebbe dire seguendo il grande Sebald, ma al crollo che si presagisce imminente, e istantaneo. Ma anche: già avvenuto, controllato nei suoi esiti, immortalato in un’immagine scenografica da guardare dall’esterno, e dal basso. Terremoto, esplosione? La vicenda di un attimo, in ogni caso: un attimo che non fugge, un presente che ironicamente allude all’effimero ma gli si impone come se la caducità non fosse il suo carattere essenziale. Un momento isolato: non il tempo. Il tempo non si lascia fermare. E non è una somma di momenti. E’ di più.
Come la vita non è una somma di giorni. E la città non è una somma di edifici.
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Peut-on transposer à l’espace ce que l’on dit du temps ? Est-on en mesure de ralentir ou d’accélérer l’espace ? Dilater ou contracter l’espace –en modifier la valeur subjective- revient-il à en accélérer ou à en ralentir la perception ? Dans un champ de réflexion où l’espace et le temps agissent à la fois objectivement et subjectivement que signifie ralentir la ville ?
Pour les métiers de l’espace –ceux que pratiquent les urbanistes, architectes, paysagistes, artistes- les techniques d’accélération ou de ralentissement des perspectives sont bien connues. Placés à la même distance de celui qui regarde, un objet sombre et un objet clair d’égal volume et de forme identique ne seront pas perçus de façon équivalente. L’objet clair, optiquement dilaté, semblera plus proche que l’objet sombre, optiquement contracté. L’accès à l’objet clair semblera donc plus immédiat. Une perspective directe bordée de murs de même hauteur semblera plus courte qu’une perspective d’égale longueur bordée d’éléments hétérogènes car l’accès aux limites du champ de vision est immédiat. Une perspective est d’autant plus ralentie que le regard y voyage plus longuement. Un jardin semble d’autant plus grand que le nombre d’évènements y est plus élevé, le sentiment de voyage plus étrange, le temps de l’étonnement plus longuement suspendu.
L’écriture subjective de l’espace s’apparente au trompe l’œil, à l’illusion d’optique, au théâtre.
Ralentir objectivement, c’est-à-dire diminuer de façon mesurable les vitesses –toutes les vitesses- suppose d’avoir assimilé les conséquences du ralentissement à un avantage de société. Ralentir la ville implique de trouver un bénéfice à la longueur des trajets, à la lenteur du développement urbain, à l’usage d’un espace non dédié à la rentabilité mais à d’autres valeurs que la ville trépidante, efficace et performante ne parvient pas à développer.
Gilles Clement, 2010