Il corpo dell’uomo giaceva di traverso sul sentiero, una gamba appena ripiegata e il viso rivolto al cielo.
La fucilata l’aveva colpito alla schiena, aprendogli uno squarcio tondo dal quale il sangue era uscito a fiotti, impregnando la camicia e la giacca, per rapprendersi nella cunetta su cui il corpo si era abbattuto. Gli occhi dell’uomo erano rimasti aperti ed erano umidi di pioggia, come la barba rada che incorniciava il suo volto ossuto di contadino. Era caduto di schianto, prima dell’ultima curva che, girando bruscamente a destra, superava la macchia di ontani e immetteva il sentiero nello spiazzo sterrato davanti alla casa.
La pioggia era diminuita e si era levato un vento leggero che faceva mulinare le foglie secche che gli si posavano per un momento sul viso.
La scrivania era ingombra di carte da inserire nei fascicoli. Le spazzò via con fastidio, poi ci ripensò e ne fece un mucchietto ordinato che raggruppò in un angolo.
Scorse un foglietto piccolo, su cui spiccava la grafia ordinata del segretario.
“Ore 8. 40 ha telefonato la signora Giulia Bayer, chiede di richiamarla”.
Poteva aspettare. Appallottolò il foglietto e lo gettò nel cestino.
Rimase un attimo assorto a guardare nel vuoto, poi si riebbe: sulla scrivania era rimasto il rapporto dei carabinieri di *. Riferivano l’esito delle ultime indagini sull’omicidio di Giuseppe Tintori, un anziano agricoltore che era stato trovato ammazzato da una fucilata vicino alla sua cascina.
Era stato arrestato un vicino di casa, un contadino che viveva da solo, ma Carlo Petri, dopo una breve istruttoria, lo aveva scarcerato.
Ora i carabinieri sospettavano della moglie, una casalinga sessantenne che aveva reso delle dichiarazioni abbastanza contraddittorie.
Spostò il rapporto con un gesto di stizza. Che se ne faceva delle dichiarazioni della vedova Tintori?
Sentirla nuovamente come testimone, torchiarla con garbo, trasmettere gli atti al pubblico ministero?
Telefonò al capitano Gualdi del nucleo investigativo: lo avrebbe atteso nel suo ufficio il mattino del giorno dopo, alle dieci.
Gualdi era un calabrese di una quarantina d’anni. Alto, stempiato, vestiva con una ricercatezza che Petri aveva sempre ritenuto eccessiva.
Sufficientemente colto e smaliziato, metteva nelle sue indagini un puntiglio particolare e, questo Petri era costretto a riconoscerlo, certe sue intuizioni azzardate si erano rivelate esatte, anche se spesso si era chiesto se veramente di intuizioni si trattasse o piuttosto di soffiate della rete di informatori che il capitano gestiva con grande oculatezza.
Era in grande dimestichezza con molti magistrati – ad alcuni dava del tu – e la sua cordialità, il suo ottimismo, la sua vitalità un po’ invadente avevano spesso messo a disagio Petri che, pur cortese di natura, amava tenere le distanze.
Ora Gualdi, dopo avere bussato discretamente alla porta, era entrato in ufficio e Petri aveva indugiato sul fascicolo che teneva aperto sul tavolo, alzando volutamente lo sguardo con un momento di ritardo.
“Si accomodi, capitano, si accomodi”, disse però affabilmente e si sistemò meglio sulla poltrona, accendendo una sigaretta.
Tese il pacchetto a Gualdi, attraverso la scrivania.
“Dimenticavo, già, dimenticavo che lei ha smesso”, disse con un pizzico di malumore.
“La vedova Tintori, la vedova Tintori: il mondo è sempre più pieno di vedove e dove non ci pensa il padreterno, ci pensa una fucilata”.
Petri si rese conto che stava dicendo delle sciocchezze, ma quello delle vedove, del gran numero di vedove, era sempre stato un argomento che lo infastidiva, anche se non perdeva occasione per scherzarci, magari un po’ a denti stretti.
“Ho letto le dichiarazioni della Tintori. Certamente vi è qualcosa che lascia perplessi. Stava in casa e non ha sentito la fucilata, che invece ha sentito benissimo il Corsini che abita a circa duecento metri. Ho anche visto che sembra che il vecchio Tintori avesse un calibro dodici, anche se è sempre il Corsini a dirlo, mentre a casa sua sono stati trovati un fucile calibro venti e un vecchio sedici col percussore difettoso. D’altro canto il Tintori aveva denunziato il possesso solo di questi due fucili, non risulta che ne avesse altri”.
“Poteva tenerlo abusivamente, accade spesso che non tutte le armi vengano denunziate”, osservò Gualdi.
“Lo so, lo so capitano” disse Petri, non riuscendo a reprimere un moto di stizza. ”Lo so benissimo, ma questo che c’entra con la vedova?”.
“Nulla, apparentemente, ma non dimentichiamo il garzone. Dove stava al momento dell’omicidio? La Tintori prima ha parlato della stalla, poi del bosco dietro casa. Dal garzone si è cavato poco o niente. E’ sicuramente un ritardato mentale, e la vedova dà l’impressione di proteggerlo. Quando ci siamo recati alla cascina non lo lasciava un minuto e lui, prima di rispondere, sembrava aspettare l’imbeccata della donna”.
“Cerchiamo di restare ai fatti, capitano, di non lavorare troppo di fantasia” disse Petri con una certa durezza. ”Il garzone è un ragazzotto di trent’anni, anche meno, e la Tintori ne ha più del doppio”.
“Non sarebbe la prima volta”, replicò Gualdi.
“Anche questo lo so, lo so benissimo capitano. E’ un’indagine che deve ripartire dall’inizio e tutte le ipotesi sono buone. Probabilmente anche la sua”.
Petri adesso si sentiva annoiato e desiderava solo che quel colloquio finisse.
Consultò la sua agenda.
“D’accordo, meglio che a questo punto conosca anch’io la vedova Tintori. Mercoledì, mercoledì pomeriggio, alle diciassette . La faccia convocare lei direttamente, ovviamente senza accompagnarla. Le faccia solo recapitare l’invito a presentarsi come testimone”.
Sorrise al suo interlocutore: gli sembrava adesso di doverlo gratificare in qualche modo.
Uscito Gualdi riprese il fascicolo e, diligentemente, incominciò a rileggere gli atti, partendo dalla prima segnalazione.
La perizia necroscopica e la perizia balistica avevano accertato che l’uomo era stato colpito da una fucilata da una distanza compresa tra i cinque e i dieci metri, con traiettoria dal basso verso l’alto. La cartuccia era caricata con pallini del cinque.
Da lepre, pensò Petri.
Il sentiero in quel punto si impennava ed era chiaro che l’omicida si era appostato tra gli alberi e aveva atteso il passaggio di Giuseppe Tintori, sparandogli alle spalle. A quella distanza era impossibile sbagliare e la rosa, ancora compatta, aveva provocato lo sfacelo del polmone raggiungendo l’aorta. La morte era stata pressoché istantanea.
Si trovò a pensare a cosa si potesse provare in quel momento.
Un dolore acutissimo e poi il nulla? Oppure non vi era alcuna sofferenza, neppure istantanea, e il buio piombava all’improvviso, come quando si preme un interruttore?
In gioventù era stato cacciatore e ricordava l’immagine del volo reciso da una fucilata. La preda che si arrestava e crollava verticalmente.
Una linea che si spezza: questa era forse la morte improvvisa.
Ritornò a sfogliare le carte, il primo rapporto del nucleo investigativo che era intervenuto circa un’ora dopo la segnalazione.
Il corpo era stato trovato dalla moglie del vecchio. La donna non si era preoccupata del ritardo, ma, quando si erano fatte le otto, aveva presa una lanterna e aveva imboccato il sentiero. Fatta la curva era quasi inciampata nel corpo del marito ed aveva gridato. Era accorso il garzone che aveva già cenato e si trovava nella cucina. Era rimasto lì, a guardia del morto, e la Tintori era corsa dal vicino, quel Corsini che aveva il telefono e che poi era stato arrestato con l’accusa di omicidio premeditato.
Fra il Corsini e il Tintori vi era una vecchia ruggine, per una questione di confini mai risolta. Anche pochi giorni prima i due avevano alzato la voce, in un’osteria del paese. Erano quasi venuti alle mani e solo l’intervento di alcuni amici aveva evitato il peggio. Corsini aveva accusato l’altro di avere spostato dei cippi e di avergli rubato una striscia di terreno.
Vi erano stati insulti e minacce e Corsini si era alla fine allontanato, borbottando che un giorno o l’altro Tintori avrebbe pagato il conto.
L’avevano sentito tutti, e tutti, in paese, alla notizia della morte di Tintori avevano pensato a quella vecchia questione. Perché Tintori, in sostanza, non aveva altri nemici, anche se certamente era un tipo solitario e scorbutico, che non destava molte simpatie.
Non era però emerso altro. Il possesso di una doppietta calibro dodici non significava molto: da quelle parti era l’arma più comune.
I litigi tra i due poi erano normali, così come le minacce che ormai si scambiavano da vent’anni.
Corsini aveva detto di aver sentito la fucilata. Era nella stalla e aveva pensato a un cacciatore. A quell’ora, se si aveva un po’ di fortuna, ci si poteva ancora imbattere in una beccaccia.
Petri, dopo pochi giorni, lo aveva scarcerato per insufficienza di indizi.
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