Tutto posso perdonarti,
non però il fatto che sei ciò che sei,
anzi che io non sono te.
Cartesio
Questo testo è stato scritto all’inizio del 2012, nel momento di passaggio dal ventennio berlusconiano al governo Monti. E’ stato un momento di grande significato politico che ha inaugurato la controversa stagione dei governi tecnici, ed ha segnato, sul piano simbolico, la fine dell’era che potremmo chiamare del “soddisfacimento orale”. Di colpo la politica ha riscoperto il “limite”, il “vincolo”, declinati in modo rigidamente superegoico, in netto contrasto con quanto accaduto negli anni precedenti. Questo scritto – una sorta di diario sentimentale di quei giorni, suggerito dalle emozioni provocate da quell’inusuale passaggio – articola la riflessione su come sia possibile organizzare in termini di cultura e politica il tema della differenza, là dove esso pesca negli aspetti inconsci del mondo pulsionale e attraversa la questione dell’invidia tra i generi. La domanda cui si cerca di dare risposta è come sia simbolizzata la differenza sessuale nello spazio politico attuale, ritenendo che questo tema sia paradigmatico della qualità delle scelte politiche.
I – Percezioni dello spazio politico contemporaneo.
Mi affaccio a questi primi giorni del 2012 con una sensazione di stordimento, come se io fossi – fossimo tutti – reduci da una grande sbornia che ora si fa sentire come cerchio alla testa, intorpidimento della mente, colpa.
Anche sollievo, per essersi salvati in extremis (ma sarà proprio così?) da una definitiva catastrofe del pensiero.
Il chiasso degli ultimi mesi lascia ora il posto a un ristoratore silenzio che starà a noi riempire con nuove parole e nuovi patti.
Ma, parole per dire cosa? Patti attorno a cosa? Siamo sicuri di sapere di cosa vogliamo e possiamo parlare?
Quale mondo futuro riusciamo a contenere nel nostro spazio mentale, per potergli, innanzi tutto, dare nome, e accompagnarlo verso la sua nascita, là dove l’epifania diventa possibilità di nuove relazioni, nuove intese, nuove edizioni dell’incontro?
La fatica che abbiamo sostenuto, per non soccombere agli ultimi anni della nostra storia nazionale, ora si fa sentire nella forma dell’insidioso dubbio di aver perso per strada il corretto collegamento tra parola e significato.
Non è forse stato lo stravolgimento del senso che ha caratterizzato quest’ultimo periodo? Parole lanciate come bombe e poi rimaneggiate come se fossero scherzi di carnevale. Parole svuotate della loro pregnanza storica, svuotate della loro provenienza, annullate nella loro possibilità di raccontare un divenire. Parole ridotte alla stregua di nomi commerciali di prodotti sulla cui probabile falsificazione non è dato indagare.
Credo che, se dovessimo dare un nome agli ultimi anni della nostra storia, lo potremmo chiamare “il tempo della falsificazione”. Menzogna sarebbe già troppo nobilitante, poiché attiene alla dimensione, comunque alta, della scelta.
Falsificare è, invece, un gioco scioccherello; è scrollarsi di dosso ogni possibile inciampo nel valore etico della responsabilità; è costruire una falsa verità alla quale si finisce per credere. E ci si crede sinceramente, attraverso quei meccanismi di scissione e negazione che la nostra mente, individuale e collettiva, mette in atto per eludere la realtà e proclamare il principio del piacere come unico codice di lettura.
Se consideriamo quanto accaduto dal punto di vista psichico, è stata una regressione collettiva verso il territorio dell’ambiguità, là dove si perdono le differenze e tutto si mescola in un indifferenziato mondo percettivo pre-verbale, ma ha anche indicato quali potrebbero essere i contorni della futura frontiera post-moderna. E’ stata una collettiva regressione intrapsichica e, al tempo stesso, un lungimirante ologramma di ciò che potrebbe essere il nostro mondo a venire se non riprendiamo con forza la capacità di dare nome alle cose e costruire identità, individuali e collettive, a partire da una ritrovata nominazione di quanto accade nell’incontro tra mondo pulsionale e realtà.
Nel dire “realtà” specificherei “realtà storica”, poiché quello che è accaduto ha mostrato quanto la fatica del pensiero occidentale – che fin qui ci ha accompagnato conferendoci identità collettiva – possa essere facilmente dissipata se non si presidia con la dovuta energia questa eredità che può, forse, non piacere del tutto, ma rappresenta la nostra appartenenza e il nostro legame con ciò da cui proveniamo.
Come tutte le eredità, ci obbliga a pensare al nostro essere figli, alla nostra condizione di generati e a come ci collochiamo nello spazio temporale che attraversa le generazioni legandole tra loro. Spazio dove la coscienza del tempo storico che trascorre diventa incontro con le fantasie sulla sessualità: come potremmo esistere se all’origine non ci fosse l’incontro tra maschio e femmina, tra padre e madre? Come potremmo dare senso al susseguirsi degli eventi se non ci fossimo, prima, incontrati col tempo della coppia, della relazione, il tempo necessario a fare accadere le cose?
Non è un caso se la deriva collettiva degli ultimi anni è stata caratterizzata da una parte dal misconoscimento dei processi storici – che legano tra loro i fatti all’interno di un imprescindibile racconto dove esiste un prima e un dopo, una causa ed un effetto – dall’altra dall’uso disinvolto di un modello sessuale del potere che ha recuperato i simboli e il linguaggio di una cultura fallocentrica che qualcuno si era illuso appartenesse ormai al passato.
Certo, si può dire che l’accoppiata di sesso e potere è spesso comparsa nel corso della storia, a connotare i momenti in cui si voleva con forza porre l’accento sulla dimensione fallica del potere politico. Come pure si può dire – ed è stato detto, quasi a giustificazione di quel che accadeva – che da sempre le belle donne si accompagnano agli uomini di potere, nella reciproca ricerca di conferma del proprio valore sociale.
Quel che è accaduto è, però, profondamente diverso ed ha segnato una vera rivoluzione dell’immaginario collettivo, ponendo altresì la domanda: è stato l’establishment politico a orientare il sentire collettivo o, viceversa, si è limitato ad intercettare un bisogno che circolava?
Come psicoterapeuta che, quotidianamente, incontra gli aspetti meno organizzati della psiche, credo che la questione abbia grande rilevanza, poiché quello che è accaduto ha messo in luce le angosce, individuali e collettive, riguardo ai temi sessuali, mostrando una volta di più che la politica non è solo l’organizzazione nella spartizione delle risorse produttive, ma è la forma con la quale i fantasmi attorno a maschile e femminile s’impongono al gruppo umano.
Sono fantasmi che attengono al riconoscimento e all’attraversamento della differenza sessuale, con tutto ciò che ne deriva: fantasie di mancanza, di castrazione, di invidia, che esprimono la fatica a superare l’onnipotenza originaria per entrare in una dimensione relazionale che riconosca innanzi tutto la differenza tra generazioni.
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