Questo scritto è una riflessione nata da una mia esperienza diretta, in qualità di candidata al consiglio comunale della mia città: non vuole essere una dissertazione teorica definitoria, ma semplicemente comunicare pensieri e domande che mi sono fatta durante quell’interessantissima esperienza.
Partendo da temi cari alla Psicosocioanalisi formulo questa domanda: l’agire politico esprime solo il tentativo di dare risposta a esigenze operative (economiche e organizzative) o si colloca in quell’area di complessità in cui le istanze originarie del Sé si strutturano ed evolvono nell’incontro?
In altri termini la domanda che mi pongo è: “fare politica” risponde a bisogni sovrastrutturali o, al contrario, è una necessità psichica che, sia pure in differenti forme, ritroviamo come tratto distintivo dell’evoluzione dell’individuo?
Ormai una buona parte del pensiero psicoanalitico ha fatto proprio il modello della psiche che vede l’organizzazione del Sé imprescindibile dalla relazione con l’ambiente. Lo stesso termine “Sé” nasce come necessità di introdurre, nel concetto originario di “Io”, la componente relazionale, nella quale anche gli aspetti percettivi e somatici sono parte imprescindibile della costruzione dell’identità psichica.
La psicosocioanalisi appartiene alla costellazione teorica che s’interroga sugli aspetti relazionali, dove “relazione” è non solo quell’insieme di vicende collocabili nello spazio dell’esperienza affettiva primaria, ma diventa paradigma della dimensione culturale e gruppale nella quale è inserita la stessa relazione primaria. La “finestra psicosocioanalitica” proposta da Pagliarani resta un validissimo strumento per orientarsi nelle complesse vicissitudini della psiche. Nella sua semplicità grafico-spaziale mostra con immediatezza come gli spazi plurimi, che procedono dal singolare al gruppale, sono non percorsi che la psiche compie dopo che si è strutturata, ma luoghi di ridefinizione e ricostruzione della psiche stessa.
Sappiamo bene la conseguenza clinica di questa impostazione teorica: la mente è sì il frutto delle esperienze primarie, ma è anche portatrice di una plasticità adattiva e autogenerativa che la rende in buona misura “ricostruibile” nell’incontro. Non è un concetto da poco, poiché introduce una sorta di “speranza possibile” riguardo alla terapia di stati anche gravi, e mostra la dimensione gruppale come luogo del divenire demiurgico.
Gli interventi nelle aziende e nelle organizzazioni, fatti secondo il modello psicosocioanalitico, traggono la loro peculiarità proprio da questo presupposto teorico: prassi e apprendimento danno il massimo risultato in termini di raggiungimento dell’obiettivo, soddisfazione e possibile sviluppo, quando si muovono nello spazio della complessità e dell’integrazione tra componenti cognitive ed inconsce. Lo stesso criterio è applicabile a qualsiasi altro campo del fare, e non a caso s’incomincia a leggere l’attuale gravissima crisi economica come il risultato di una “scissione” troppo a lungo spacciata per pragmatismo ed efficienza.
Il dramma della crisi economica non è solo legato alla perdita del lavoro e all’impoverimento, ma all’improvviso accorgersi dell’alienazione diffusa che ha travolto gli aspetti identitari dei singoli e dei gruppi. Sicuramente anche la politica ha interpretato questa “scissione” che sembra il tratto connotante questo momento storico.
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