Tu mi ricordi l’infanzia,
quando l’aurora, compagna di giochi,
irrompeva sulla sponda del letto
sorprendendomi…
quando la fede nel meraviglioso
mi rifioriva sempre nel cuore
come una fresca corolla…
quando insetti, uccelli e fiere,
nuvole, erbe e cespugli esercitavano
tutto il loro fascino …
quando a notte lo scroscio della pioggia
recava sogni della terra incantata
e nella sera la voce di mia madre
dava senso alle stelle…
Rabindranath Tagore
Tu mi ricordi l’infanzia,
quando interamente mi pervadevano i suoni,
campane e rondini…
quando forme visi e colori erano fusi
nella pienezza viva
dei pomeriggi ronzanti e immobili
delle pozzanghere sulla strada battuta
dei nascondigli ingenuamente segreti …
quando la mano serena che traeva disegni dalla lana
mi testimoniava e rassicurava
della fraterna anima del mondo …
Tu mi ricordi l’infanzia,
quando l’aurora, compagna di giochi,
irrompeva sulla sponda del letto
sorprendendomi
quando la testiera del letto
con i suoi intarsi madreperlati dai mille colori
mi affascinava e mi trasportava in un mondo incantato
sorprendendomi
quando a sera il buio arrivava,
accompagnato dai suoi fantasmi e dalle sue paure,
e mi scaraventava nell’angoscia
sorprendendomi
quando le coperte, tirate su, su oltre la testa,
facevano barriera al mondo proteggendomi
da ciò che non volevo sentire
quando una nebbia lattiginosa mi avvolgeva
e mi immergeva nell’oblio
quando il rumore scoppiettante del moschito
annunciava l’arrivo di un giovane uomo
quando l’assenza e il desiderio di lei bruciavano l’anima
quando il miracolo dell’amore si rinnovava
tra le braccia della nonna, sempre pronta
ad accogliere la piccola bambina.
Tu mi ricordi l’infanzia,
quando nei giorni d’inverno, malata
a lungo, curiosa aspettavo
le allettanti promesse di chi mi curava
quando la soglia, il pollaio, il porcile,
il recinto dell’orto, il pozzo,
la stalla,
segnavano il limite dell’aia assolata
quando in assenza dei Grandi,
la gabbia dei conigli vuota,
a terra,
diventava il mio nascondiglio
quando i ciliegi, le zinnie, le rose a mazzetti,
le palle di neve,
le speronelle turchine
coloravano i confini dell’universo
quando le altissime oche, vestite di candida piuma,
il collo proteso in avanti, l’occhio nemico,
il becco aperto
soffiando, mi rincorrevano
quando gli zingari, in sosta all’incrocio,
con carovane cavalli bambini
e donne
dalle lunghe sottane e la pelle scura, mi impaurivano
quando la gatta bianca correva veloce
sul ponte,
incontro al pescivendolo
che fischiettava lontano
quando dalla strada ghiaiata, improvviso,
irrompeva nell’aria
l’urlo del fruttivendolo che domandava:
«vàghia?!»¹
quando una sera in cucina, la polenta sul fuoco,
mia madre diceva aver visto, dai vetri,
passare nel cielo
Santa Lucia
¹«vado?!»
Continua la lettura nel pdf:
“Il vero luogo dell’esperienza non può essere né nella parola né nella lingua, ma nello spazio fra essi. Per questo ho cercato di definire come in-fanzia dell’uomo il luogo di un’esperienza originaria. Non si tratta dell’infanzia, in senso stretto ma piuttosto della traccia che l’infanzia dell’uomo lascia nel linguaggio stesso, cioè di quella scissione fra lingua e parola che caratterizza in modo esclusivo il linguaggio umano”.
(Giorgio Agamben)
complimenti alla vostra comunità di scrittori che cresce rigogliosa
auguri per il nuovo anno