*Intervento al Convegno Il lavoro che trasforma il mondo, organizzato nell’ambito della mostra promossa dalla Cgil di Brescia CapoLavoro. Arte e impegno sociale nella cultura italiana attraverso il Novecento (Brescia, Museo di Santa Giulia, 10 ottobre-10 dicembre 2014)
Oltre la dimensione economica e tecnica che lo connota, al lavoro ne va riconosciuta una culturale: la sua considerazione, la sua promozione, il ritenerlo un diritto non negoziabile – e di più: una delle condizioni che fondano la relazione con gli altri – non dipendono solo dal grado di sviluppo tecnologico, dall’andamento dell’economia e dallo stato dei rapporti fra le parti sociali e le loro rappresentanze, ma anche dal posto che esso occupa nella mentalità diffusa.
Indipendentemente dal fatto che il lavoro dei contadini di pianura e di montagna ha costruito grande parte del paesaggio e che il lavoro degli artigiani ha fornito i presupposti di gran parte del nostro vivere quotidiano e continua a svolgere in questo senso un ruolo essenziale assicurandone la continuità, è innegabile che il lavoro che trasforma il mondo – stando all’immagine che il titolo di questo incontro evoca – rimanda al lavoro industriale, al lavoro che maneggia la materia di cui il mondo è fatto cambiandone natura e forma. Ma è proprio l’immagine del lavoro industriale che oggi evidenzia i segni di un appannamento della sua presenza nel sentire collettivo. Un appannamento che torna in questi ultimi tempi a farsi divaricazione dei modi di rappresentare il lavoro, il lavoro operaio in particolare: per gli uni componente e per molti aspetti matrice delle sperimentazioni della democrazia, per altri residuo di una società scomparsa (si pensi a come si parla degli anni Settanta, quasi fossero una sorta di preistoria, quasi non appartenessero alla storia del paese, e non fossero ancora memoria viva).
Alcuni indizi possono essere richiamati per inquadrare un cambiamento di mentalità ormai avanzato anche se non concluso.
Tenuto conto che l’idea del lavoro industriale rimanda al luogo ad esso deputato, la fabbrica, è facile rilevare, nella mostra a lato della quale si svolge questo stesso incontro, la scarsa presenza della fabbrica. E la pittura, lo sappiamo, può essere considerata – o almeno lo poteva – uno dei luoghi rivelatori dell’immaginario collettivo. Osservando i quadri esposti si nota che, anche quando hanno scelto come soggetto delle loro opere il lavoro operaio e la fabbrica, gli artisti italiani – lo spiega Lorenzi, uno dei curatori – “spesso sono ricorsi alla rappresentazione di un’Italia arcaica, artigiana, contadina”. Perché? Qualcuno ha sostenuto che il ritardo della comparsa della grande industria nel nostro paese, verificatasi quando la tendenza artistica dominante si stava orientando in una direzione poco propensa ad ammettere la fabbrica fra i soggetti della pittura, e insieme un gusto diffuso e un mercato dell’arte che continuavano a chiederne di tradizionali, costituiscono le ragioni della scarsa presenza dei luoghi del lavoro industriale nella pittura italiana. Queste ragioni possono probabilmente essere trasferite al caso bresciano, che ho provato a ripercorrere nel mio intervento pubblicato nel catalogo della mostra, al quale rimando.
Uno snodo decisivo va tuttavia ricordato qui: l’immaginario, nel 900, è ormai attraversato dalla fotografia, e in essa la fabbrica è una presenza significativa, come testimoniato dall’archivio della Fondazione Negri per il primo Novecento, e da quello di Ugo Allegri per la seconda metà del secolo. E’ la scala inedita della dimensione della fabbrica, dei suoi prodotti e dei suoi strumenti che domina in queste fotografie. Le immagini degli operai comunicano l’orgoglio di mestiere e insieme danno evidenza alle misure eccezionali dei manufatti, siano essi i tubi delle condotte forzate della Togni o le torri di raffinazione prodotte dall’ATB.
Per chi in fabbrica non c’è mai entrato, sono state queste immagini fotografiche, frutto della committenza imprenditoriale, a costruire l’immagine del lavoro industriale nella nostra città. La fabbrica ha infatti continuato a rappresentare un mondo a parte, reso invisibile dalle cortine murarie che la circondavano, del tutto ignorata – a differenza di quanto avveniva fino all’inizio del ’900 – dalla curiosità del turista, e chiusa per ragioni di sicurezza alle visite delle scuole, senza un 4 novembre che, come le caserme, la aprisse alla cittadinanza.
Continua la lettura nel pdf: