Per arrivarci bisogna alzarsi sulle punte dei piedi, sollevarsi il più possibile e tendere il braccio verso l’alto, più che si può.
Quando la mano riesce ad afferrarla, si sposta il peso del corpo e lo si concentra tutto lì, nella mano, così la maniglia si abbassa. Allora si sente un rumore sordo, piccolo, di ferro.
Un clic. Deve essere quello che permette l’apertura della porta, perché insieme al clic si sente un cigolio appena accennato e la porta si socchiude.
La porta è di legno chiaro. Grande. Larga, alta, e sta sempre lì, incastonata fra la cucina a legna, che la mamma chiama cucina economica, e l’angolo in cui teniamo la seggiolina.
Sulla seggiolina mi siedo io quando gioco ad essere la centralinista, con la cornetta telefonica nera e il tabellone pieno di leve colorate; oppure ci sta seduta zia Cecca.
La mamma mai, non ha tempo lei, e ce lo ricorda sempre.
Sulla sinistra della seggiolina il mettitutto.
Nei vani chiusi dagli sportelli teniamo le stoviglie e su un ripiano a vista la radio, con cui io e mio fratello, adesso che è estate e non andiamo a scuola, ascoltiamo ogni giorno la hit parade.
HIIIIIIT PAARAAAADE, così bisogna dirlo.
La porta mi piace moltissimo. Viene tenuta sempre chiusa e io so perché.
La stanza che protegge è la più bella della casa. C’è un letto, non piccolo come il mio e nemmeno grande come il lettone.
Si chiama a una piazza e mezzo. Prima che la zia Cecca venisse a vivere con noi ci dormiva mio fratello, ma io ancora non c’ero. La zia Cecca non ha figli, è la zia di mamma ed è venuta a stare con noi quando è morto suo marito e sono nata io.
Abita con noi per occuparsi di me, perché la mamma possa continuare a lavorare.
La stanza ha il suo odore. Borotalco, lana spessa e grezza, carta. Fogli di carta che tiene ben piegati nelle tasche a toppa dei suoi vestiti.
I vestiti di zia Cecca si assomigliano tutti. Sono abbottonati sul davanti e cuciti con stoffe dalle tonalità scure.
Li tiene appesi nell’armadio di legno a due ante poggiato sulla parete di destra della stanza. Un’anta è completamente ricoperta da uno specchio; anch’io mi posso vedere riflessa, tutta intera, se mi allontano un po’.
I fogli di carta le servono per imparare a scrivere. Io lo so già fare, e quando rimaniamo da sole glielo insegno. Ho cominciato dal suo nome, Francesca. Lei fa esercizio su quei foglietti di recupero di cui si riempie le tasche. Adesso è estate. Vuole riuscire a scrivere da sola le lettere che spediremo quando sarà Natale. La mamma le fa scrivere a me, anche quelle della zia, ma quest’anno, alle sue vuole provvedere da sè.
Cari nipoti. Noi stiamo bene e altrettanto speriamo di voi
La stanza dove dorme non è proprio una camera, ma è ordinata, fresca, luminosa.
Sulla parete opposta a quella su cui poggia la testata del letto, c’è una finestra, l’unica della casa dal cui vano si scorgono rami frondosi disegnati sullo sfondo del cielo. Riesco a vederli dallo spiraglio della porta socchiusa, e anche se sto vicino al letto.
Se mi avvicino scompaiono. Più mi avvicino alla finestra e meno riesco a vedere fuori.
Non mi importa però. La stanza è piena di cose che mi interessano.
Sulla parete di sinistra, opposta all’armadio, è tesa una lunga tenda colorata, la stoffa è uguale a quella che è servita per cucire uno dei teli a forma di sacco con cui la sera, prima di andare a dormire, la mamma copre il televisore. Non deve prendere polvere, dice, mentre sistema la fodera sull’apparecchio. Ne abbiamo un’altra, rossa, cucita come se fosse il sipario del teatro dei burattini, con due drappi che si sollevano lateralmente.
La mamma la usa quando abbiamo ospiti, per fare bella figura, dice.
Dietro la tenda cerco odori noti.
Lì dietro, su assi di legno allineate, la mamma ripone in ordine i fiaschi del vino, la stoppa, il tiraolio e due damigiane di vetro, grandi, che mio padre si fa riempire di vino dai suoi fratelli.
Abitano in campagna i miei zii, e qualche volta li andiamo a trovare la domenica, con la Topolino.
Mi piace quando andiamo a prendere il vino.
Mio padre mi tiene vicino a sé quando viene spillato dalla botte. Il getto rosso è profumato e scende gorgogliando, trattenuto dagli orli dell’imbuto bianco inserito nella bocca larga della damigiana.
La sera, a casa, babbo e mamma issano la damigiana sul tavolo della cucina, e mentre la mamma prende i fiaschi da dietro la tenda, mio padre, con gesto esperto, infila il tiraolio nella damigiana e aspira con un risucchio prolungato. Poi vi inserisce una cannula stretta e comincia a versare.
Via via che i fiaschi si riempiono, la stanza si colma di un odore che contiene il profumo dei filari delle vigne, dell’uva, del mosto, dei tini, della cantina degli zii e anche della nostra macchina, la Topolino, impregnata del sentore del garage dove rimane parcheggiata ogni settimana.
Sono nata così io, una sera che a casa infiascavano il vino.
Me lo ha raccontato la mamma, mi ha spiegato che è stato lo sforzo di sollevare la damigiana sul tavolo che mi ha fatto venire al mondo qualche giorno prima del previsto.
Se annuso dietro la tenda, ritrovo tutti i colori variegati della campagna e il rosso brillante della mia nascita.
Nella stanza, quello che mi piace più di ogni altra cosa è la piccola scansia incastrata fra l’armadio e l’angolo della parete con la finestra.
La scansia è coperta da un imballaggio fiorito, di plastica trasparente, che ha una cerniera sul davanti. Lì dentro la mamma ripone le sue scarpe, bellissime.
Ogni volta che posso, sguscio nella stanza e le guardo.
E’estate adesso, e i ripiani sono occupati da sandali e ciabatte.
Li guardo, modellati dalla forma dei suoi piedi, e immagino i passi veloci che la portano via ogni mattina, al lavoro, a Firenze.
Cammina frettolosa la mamma, anche in casa, e i suoi spostamenti sono ritmati dal ticchettìo delle suole sul pavimento, diverso a seconda delle stanze in cui si trova e dei movimenti che compie.
I sandali, blu o bianchi, hanno tomaie di pelle, lacci sottili che le si avvolgono alle caviglie e tacchi stretti.
Quando li indossa vuol dire che esce, seguita da una scia di piccoli battiti ravvicinati, che mi lasciano custode dell’attesa del suo ritorno.
Se sta in casa o scende solo a fare la spesa, calza le ciabatte, ed è tutta un’altra musica.
I passi, pur affrettati, si allungano e si distendono. Ne deriva un fruscio diffuso che diventa la colonna sonora della sua presenza e della speranza che prima o poi si accorga di me.
Quando sono qui, protetta dalla penombra estiva che tracima dalle persiane verdi della finestra, le tocco una a una, le sue ciabatte.
Ce n’è un paio che mi piace più di tutte. La tomaia marrone sembra di seta, è lucida ed è tutta traforata da piccoli buchi orlati, di dimensione diversa, come una costellazione.
La zeppa di sughero, morbida al tatto e attraversata da una riga orizzontale dello stesso colore della fascia, pare una fetta di quella torta al caffè che di tanto in tanto prepara la zia.
Faccio passare la mano aperta sulla stoffa liscia, infilo le dita sotto la tomaia.
Mi sfilo dai piedi gli zoccoletti di legno e poggio le ciabatte di mamma per terra.
Con la mano destra mi reggo al pomello di un’anta dell’armadio, un piede per volta salgo sulla zeppa e scivolo in avanti.
Sono altissima! Senza staccare la mano, azzardo qualche passo verso la finestra, poi mi giro e mi specchio. Sono grande, una bambina grande come la mamma.
Piano piano prendo sicurezza, provo a camminare, mi guardo ancora e poi mi avvicino alla finestra. Con le ciabatte di mamma posso vedere le fronde degli alberi anche se sto poggiata al davanzale.
Mi giro su me stessa e sono già lei, il braccio piegato su cui infilare la borsa, sto andando a lavorare a Firenze con l’autobus e penso che prima di tornare a casa comprerò alla mia bambina quei panini salati che le piacciono tanto.
Non so da quanto tempo mi stia osservando.
Quando la vedo arrossisco e la guardo.
Le spalanco sulla faccia gli occhi ancora ridenti, distanti, smarriti nella fantasia del gioco, e stringo le labbra in un sorriso incerto, impaziente, mentre aspetto di sapere cosa dirà.
Toglitele, le sciupi, dice. Vieni di qua con me, vanesia, dice, e mi aiuta a calzare i miei zoccoletti.
La seguo senza capire come sta. Si è arrabbiata? Qualcosa nell’espressione del suo volto mi lascia intuire che sa, che ha capito, che da qualche parte, dentro di sé ha aperto un sorriso.
Alzo la testa verso di lei, e mentre chiude la porta i nostri occhi si incontrano.
Sei ancora piccola, dice.
In cucina volteggia il vapore della cena che sta preparando.
E’ in quelle spirali profumate che annega il tuffo del mio cuore.