Ermanno Cavazzoni, Gli eremiti del deserto, Quodlibet 2016, pp. 142, euro 14
Si possono mettere insieme “sette lezioni” ed enumerare quarantanove casi di scrittori inutili; si può scrivere una Guida agli animali fantastici, o una Storia naturale dei giganti: perché non le vite degli eremiti del deserto?
Una delle tante tentazioni cui Cavazzoni aveva del resto già ceduto venticinque anni fa quando ci aveva raccontato di quelle di Girolamo, ritiratosi “nel deserto siriaco portando con sé in eremitaggio tutta una biblioteca”, per poi rendersi conto “un bel giorno che queste letture, queste isole di paradiso, erano un’ulteriore tentazione…”.
E allora occorrono forse anche libri che non solletichino la nostra smania e avallino la nostra illusione di capire, il nostro desiderio di identificarci in personaggi che sono o ci piace credere migliori di noi: libri fatti per accettare con curiosità leggera la sterminata varietà delle vite che gli uomini possono vivere, e lasciare che un’ironia svagata semini il dubbio della loro sostanziale equivalenza.
Non sono dunque eroi questi eremiti: sono persone scrupolose, questo sì. Metodiche. Cocciute la loro parte. Un po’ fissate. E soprattutto amanti della solitudine. Favorite comunque – c’è da dire – dall’epoca (fra il terzo e il quinto secolo dopo Cristo): “un’epoca in cui questa fuga era possibile. Oggi un eremita non saprebbe più dove andare; non ci sono più luoghi senza proprietario e senza Stato che li controlli; un eremita oggi sarebbe soggetto al fisco”. Non correva questo rischio Antonio, sprofondato nel deserto più dimenticato, capace di resistere non solo quando il diavolo “si travestiva da donna e imitava una donna in tutti i modi possibili”, ma anche di restare insensibile al “ricordo dei soldi e della ricchezza”, alla “voglia di farsi notare e di mangiar bene”. E proprio per questo, si badi, “benvoluto da tutti”, ammirato e famoso… Già, era un’altra epoca.