Paola Baratto, Tra nevi ingenue, Manni 2016 (pp. 46, 12 euro)
E’ la stessa voce che abbiamo ascoltato in Giardini d’inverno: anche in questo nuovo libro di Paola Baratto ricordi ed emozioni decantano nella misura del racconto breve, se mai più rarefatto qui, ancora più sobrio nei riferimenti, meno circostanziato, tanto da sconfinare spesso nei colori luminosi e intensi delle Gouache, divagazioni assorte che intervallano i brani proponendo momenti sospesi in una sorta di domestica eternità.
Ritroviamo personaggi – donne e uomini identificati solo dal nome – che acquistano la loro consistenza nel silenzio, e in quei suoni che lo perfezionano (il fruscio di uno “scorrere d’acque”, i “gargarismi mattutini d’una moka”, i “rintocchi dei campanacci su un altopiano”). Un silenzio come quello che si può godere nel piccolo cortile chiuso fra alti muri dove il bambino sfugge – le domeniche dedicate ai pranzi familiari – all’”insensato trattenersi degli adulti a tavola” e fa esperienza di quella solitudine che nell’infanzia non è mai assoluta, perché “si avverte che qualcuno ci sta osservando”, sempre, e persino il pino che sorge nel cortiletto, “nella sua maestosa indifferenza”, dà “l’impressione d’interessarsi a lui”.
Sono le “epifanie” che la noia – sentimento di cui si fa esperienza vivida nelle prime età della vita – sa regalare. Sono vissuti che echeggeranno poi nella vita adulta – ma mai immemore dell’infanzia trascorsa – in paesaggi dove si rivela “la nudità innocente e primigenia” che la montagna sa rivelare quando non ci si attarda nel bosco ma se ne esce, senza però farsi prendere dalla smania di raggiungere la vetta, e si indugia invece fra ghiaioni, fenditure di calcari e ondulazioni di graniti, gole di nevai… Ed è un’immagine, questa della neve, che ritorna: il rumore dei passi sul sentiero innevato “si fa teso come un filo di silenzio” (sembra di sentire le prime battute di Des pas sur la neige di Debussy) e sono “le nevi ingenue di Utrillo” – nei suoi ritratti del Cabaret Le lapin agile – a dare il titolo alla raccolta, ma era un “immobile paese innevato” anche l’aspetto che ogni giornata sembrava assumere quando da bambini si stava a giocare in casa, “come dentro un acquario”, “acquattati sotto mobili di formica celeste” (come il Benjamin di Infanzia berlinese: “Io li conoscevo uno per uno i nascondigli nell’appartamento…”).
E’ in questa dimensione appartata e silenziosa che i personaggi rivelano in pochi tratti la loro vicenda essenziale, lasciano trapelare il tratto che – con accentuazioni diverse, versioni variate di un’unica comune attitudine – rende uniche le loro vite, e ne fa vite a loro modo riuscite: L’arte del passo – cui è dedicato uno dei racconti – fa tutt’uno con un’arte di vivere (e di scrivere…) che coltiva tenacemente, non curandosi dell’incomprensione degli altri, la propensione alla ricerca del tempo perduto. Una ricerca che non sembra tuttavia aver la prospettiva d’un tempo ritrovato: le “tracce” di “echi” che non si cessa di seguire non portano a rivivere il passato dando la sensazione di una vittoria sul tempo. Ai protagonisti di questi racconti non è dato guadagnare – come a quello della Recherche – frammenti d’esistenza sottratti al tempo col risultato di sentirsi un essere – a sua volta – extratemporale. Questi personaggi si accontentano del “gratuito piacere d’accomodarsi dentro una risonanza conosciuta ma chiusa come un’ostrica”. E tuttavia è un accontentarsi che non si risolve nell’acquietamento: “per quanto non (ignorino) la lezione del disincanto, ogni volta ci (ricascano)”. L’assenza, per loro, resta tale, ma proprio in quanto assenza mantiene vivo il Desiderio: sa farsi segno d’un momento passato senza restituirlo con l’evidenza travolgente, la presentificazione sorprendente del sapore della madeleine. Non ne viene perciò l’impressione di essere – sia pur transitoriamente – indifferenti alla morte ma, al contrario, la percezione lucida dell’impermanenza: della “bellezza metamorfica “della montagna, ad esempio, dove la forma definitiva non alligna” e quella della solidità delle rocce è solo un’illusione, in realtà frutto di “fragorosi crolli”. Ed è tuttavia “una sovrastante impressione di permanenza” che quello stesso ambiente può darci, così rendendo “tangibile la natura relativa del nostro passaggio”.
Ci era parso di camminare sulle orme di Calvino, nei Giardini d’inverno. Sembra piuttosto Proust il richiamo costate in questa nuova prova, fin dal primo racconto: a Illiers – la Combray della Recherche – “il tintinnio della campanella sul portone sembra ancora quello “di quando il visitatore era Swann”, ma una volta entrata nel giardino e nella casa, la protagonista “si (sente) estranea, come se vi ritornasse dopo aver perso la memoria”.
Più dei miracoli della memoria involontaria, si direbbe tuttavia la perdita dell’aura a trasparire in questi racconti, nel “lavorio del rimpianto” che li permea ma non esclude il ricorso fiducioso alla capacità evocativa che possono offrire le nuove tecnologie (consci comunque che “la tecnologia non può tutto”). E’ dunque a Benjamin che accade di pensare, anche per il valore che si riconosce all’“oggetto buttato per errore o perduto per disattenzione”, o a quelli che si conservano, nella seconda casa magari, perché sono “testimonianze d’esistenze che non si riesce a tradire”. Un’aura che avvolge le cose ma anche certi luoghi – come un vecchio bistrot, che anche la copertina richiama, o una “vecchia dimora a mezza collina appartenuta a un amico – in equilibrio fra passato e presente, fra dimensione privata e pubblica, fra solitaria discrezione e aspirazione a uscire dalla propria riservatezza.