Julian Barnes, Il rumore del tempo, Einaudi 2016, pp. 194, euro 18,50
“Fra le numerose delusioni che riservava la vita c’era anche quella di non essere mai un romanzo, né di Maupassant né di chiunque altro. Beh, magari un racconto grottesco à la Gogol’.”
È fin dall’inizio consapevole del suo destino, il protagonista, Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, perché sa bene di che pasta è fatto: “Sono un uomo assai poco risoluto e non so se riuscirò mai a raggiungere la felicità”.
A che cosa va incontro un uomo di questo genere – uno dei grandi musicisti russi del Novencento, insieme a Prokof’ev e Stravinskij – in un paese nel quale la sua arte si trova costretta a resistere al “rumore del tempo”, un tempo nel quale si era stabilito che “tutti i compositori erano alle dipendenze dello stato”, “i lavoratori dovevano essere addestrati a diventare compositori, e tutta la musica doveva essere al tempo stesso comprensibile e gradita alle masse”?
Non gli resterà che aggrapparsi all’idea che “la buona musica sarebbe stata sempre buona, che la grande musica non era violabile”. Ma, intanto, accettare. Accettare le periodiche convocazioni a palazzo, e telefonate autorevoli come quella di Stalin in persona, e ogni volta piegarsi al volere protervo quanto volubile del Potere: “la purezza proletaria era per i sovietici non meno essenziale di quella ariana per i nazisti. Per giunta, lui manifestava la sventatezza, la stupidità di ricordare come ciò che il Partito aveva decretato ieri fosse spesso in netto contrasto con quanto sosteneva oggi. Il suo desiderio era che lo lasciassero in pace con la musica, la famiglia, gli amici: la cosa più semplice da volere, e la più difficile da ottenere. (…) Volevano che accettasse di essere riforgiato, come un manovale ai lavori forzati sul canale del Mar Bianco. Pretendevano uno Šostakovič ottimista.”
Pagina dopo pagina seguiamo la storia della degradazione di quest’uomo, che passa attraverso l’epoca di Stalin e quella di Chruščëv, dalle stroncature minacciose alle adulazioni ipocrite, costretto a comporre anche cattiva musica e a rinnegare colleghi ammirati come Stravinskij, e finisce per concepire un irreparabile “disprezzo di sé”, arrivando “al punto di aborrire la sua persona, quasi quotidianamente” e di pensare che “sarebbe dovuto morire anni e anni prima”. E continua a vivere, invece, e a comporre, anche dopo che ha ceduto su quello che aveva fino allora difeso, la scelta di non iscriversi al Partito: “contemplò l’ipotesi del suicidio, naturalmente, quando ebbe di fronte le carte da firmare; ma poiché già stava commettendo un suicidio morale, che utilità avrebbe avuto da quello fisico? Non era neppure che gli mancasse il coraggio di comprare e nascondere e ingerire delle pillole. Piuttosto che, a quel punto, gli era venuta meno anche l’autostima necessaria per togliersi la vita.”
Romanzi nei quali l’autore ha voluto che il meccanismo di identificazione con il protagonista si inceppasse e il gusto della lettura cercare nuove vie, ne abbiamo letti. Ma qui si tratta d’altro: quando lo leggiamo, sentiamo di esserci già convinti che “essere un vigliacco non è facile” e che “molto più facile è essere un eroe”: “a un eroe basta mostrarsi coraggioso per un istante; quando estrae la pistola, quando lancia la bomba, attiva il detonatore, fa fuori il tiranno e poi se stesso. Essere un vigliacco significa invece imbarcarsi in un’impresa che dura tutta la vita. Mai un po’ di riposo. (…) Essere un vigliacco richiede costanza, fermezza, impegno a non cambiare, il che si risolve in una certa forma di coraggio.” Questo si dice il vecchio Dmitrij Dmitrievič, e sorride fra sé: “il piacere dell’ironia non l’aveva ancora del tutto abbandonato”. Ma anche di questo dovrà ricredersi, e rendersi conto che anche “l’ironia (ha) i suoi limiti”: si può guastare e divenire “sarcasmo. E a che serve, a quel punto? Il sarcasmo è l’ironia dopo che ha perduto l’anima.”