Andrea Inglese, Parigi è un desiderio, Ponte alle Grazie 2016, pp. 320, euro 16
È quello di Jean Seberg il volto che compare in copertina, personaggio di Fino all’ultimo respiro di Godard, film decisivo nella costruzione del sogno di Parigi che alimenta la giovinezza del protagonista di questo romanzo.
Parigi, meta e sintesi di tutti i desideri, sogno che si confonde – in questo “post-punk” – con le parigine, che in effetti saranno tramite essenziale della sua esperienza della città. Una città della quale a un certo punto vorrebbe scrivere “una guida turistica letteraria o, ancora meglio, un romanzo turistico“, “un romanzo topograficamente ragionato, per quartieri, epoca, gastronomia, attività culturali, il romanzo con l’itinerario urbano incorporato, e tutte le tappe per il turista evoluto”, “con i posti e i personaggi come dio comanda, e gli aneddoti”. Ma non è questo che scrive: troppo preso dai suoi amori, ma anche dall’osservazione dei mutamenti che l’ipermodernità impone: dagli smartphone – veicoli di solipsismo (“connessione permanente con il brodo psichico”) ma anche mezzi per “mostrare a tutti gli stronzi che ti circondano che tu ce l’hai una vita privata” – alle vetrine in cui qualche store manager ha deciso di esporre, “posta su un piedistallo marmoreo, illuminata da uno spot invisibile, una sola scarpa, ultimo esemplare spaiato di un antico popolo di calzature per bipedi umani”. Niente a che fare con la vetrina del negozio di fotografia di un vecchio cinese, che lascia scorgere “una parete intera di macchine fotografiche usate, ma in buono stato e funzionanti, macchine analogiche, reflex, sia ben chiaro”: un messaggio del tutto diverso da quello dei negozi che “rifuggono il gremito, l’ammasso” e “mostrano il massimo disprezzo per il lato materiale, volumetrico, della merce”. È il primo, il cinese, ad aggiudicarsi la “medaglia Bianciardi”, onorificenza immaginata dal protagonista per quanti “stanno fermi e non collaborano” con le mode correnti e il cambiamento continuo, incontestabili imperativi sociali nella società dei consumi. È più che mai attuale invece la necessità che un pagina della Vita agra segnalava, che “la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha.”
Questa e altre verità percorrono questo romanzo volutamente sconclusionato, discontinuo, amaro e divertente, deluso e appassionato come una canzone di Paolo Conte.