David Le Breton, Fuggire da sé. Una tentazione contemporanea, Cortina 2016, pp. 195, 19 euro
“Le condizioni in cui viviamo sono sicuramente migliori di quelle dei nostri antenati e tuttavia non ci sollevano dalla necessità di dare significato e valore all’esistenza”, in un mondo, com’è il nostro, in cui è facile provare una “sensazione di inadeguatezza, di scacco personale”, tanto da poter affermare che “l’insufficienza è per l’individuo di oggi quello che il conflitto era per l’individuo della prima metà del XX secolo”.
Risultato: “il piacere di vivere diventa cosa rara”. Perché è “necessario rigenerarsi di continuo” ma senza poter contare su un orientamento comune: non solo in conseguenza del dissolvimento delle grandi narrazioni politiche e dei destini comuni che delineavano, ma anche perché “l’individuo ipermoderno richiede la presenza degli altri ma vuole anche starne lontano”. Per lui “il legame sociale è divenuto un dato ambientale più che un’esigenza morale” o addirittura “un teatro indifferente” delle proprie azioni, mentre internet, cellulari e social “consentono di esserci senza esserci”…
Si potrebbe continuare: il discorso ci prende fin dalle prime battute, avvince e nello stesso tempo inquieta. Perché? Perché fuggire da sé, essendo una tentazione contemporanea, non risparmia nessuno: se non noi direttamente, sicuramente qualcuno che fa parte della nostra cerchia. Non sono tanto gli scomparsi di “Chi l’ha visto?” a venirci in mente, ma quelli che incontriamo ogni giorno, al loro posto, ma sentiamo essere come scomparsi dentro se stessi, dietro la maschera del loro ruolo, delle loro buone o cattive maniere, mimetizzati in parole e gesti stereotipati, sfuggenti, sempre al di là di una relazione vera.
Ma ci sono anche quelli che – un certo giorno, all’improvviso apparentemente, o piano piano, progressivamente – che la loro parte non ce l’hanno più fatta a sostenerla. E sono scappati, fisicamente a volte, spariti chissà dove; molto più spesso socialmente, sottraendosi al rapporto con gli altri. Contestandolo nei fatti, i giovani soprattutto, o rinunciandovi, i vecchi. Chi di noi non conosce (sempre che non ne sia protagonista) situazioni al limite della sostenibilità come quelle di genitori con figli adolescenti (che oggi vuol dire sotto i 20-25 anni) che dan di matto e fanno ammattire l’intera famiglia. O di cinquantenni che devono accudire genitori, approdati alla terza o quarta età, divenuti intrattabili nelle loro fissazioni egoiste o irraggiungibili nei mondi separati delle demenze senili e dell’Alzheimer? Già, anche l’Alzheimer, nuovo spettro che si aggira per il mondo: perché “la lesione (organica, neurologica) può essere anche conseguenza, e non già origine di una presa di distanza”: anche loro, i colpiti dal morbo, caduti nella tentazione di fuggire da sé, in certo modo, fattisi indifferenti alla vita e alla propria storia prima che dimentichi di essa e dissociati dal proprio cervello. Sicché “la diagnosi del morbo di Alzheimer può essere vissuta dai familiari con sollievo, una forma di assoluzione”. Il confine fra intenzionale e fisiologico si fa più che mai labile nella vecchiaia come nell’adolescenza, due età della vita che chiedono all’individuo uno sforzo, non per tutti sostenibile, di trovare nuovo senso nei propri giorni e nella relazione con gli altri.
Ma al di là del racconto vivido dei casi e delle situazioni che attraversiamo in queste pagine, è la scrittura a trascinarci: quelle che potevano all’inizio apparire ripetizioni si rivelano passi essenziali di una ricognizione in progress, di una ricerca continua di aderenza delle parole a stati nebulosi, crepuscolari, indefiniti e pure capaci di determinare svolte esistenziali. Di qui l’adozione di un registro che oscilla fra il saggistico e il letterario-filosofico. Non è un caso che per dire, ad esempio, della demenza senile si ricorra alle parole con cui Annie Ernaux racconta della madre (Non sono più uscita dalla mia notte, Rizzoli 1998) o alle sequenze di un film (Amour, di Michael Haneze, 2012). O addirittura si proponga una rassegna degli autori che hanno narrato la fuga, la sparizione, o il desiderio di sottrarsi al personaggio che si è stati e si è. Non si tratta però di un catalogo (come quello che si trova nel Bartleby e compagnia di Vila-Matas, riedito da Feltrinelli nel 2013), ma del richiamo di un’evidenza: la diffusione di storie simili è sorretta dall’identificazione del pubblico con gli eroi della scomparsa. A riprova della contemporaneità di questa tentazione.