François Jullien, Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti, Feltrinelli 2016 (pp. 302, euro 22)
Primo. Lasciar da parte l’insofferenza per i discorsi che ci propongono di cambiare pelle – culturale, esistenziale – passando armi e bagagli all’Oriente nelle sue varie declinazioni: Jullien non ci propone conversioni.
Secondo. Non pensare che questo sia un libro per addetti ai lavori: si parla molto di filosofia, europea e cinese, è vero, ma mettendone sempre in luce i contrastanti principi che agiscono nel nostro (e nel loro) modo di pensare, e di vivere. Senza essere un vademecum per la saggezza, il libro è utile a tutti, leggibile per tutti. Non offre ricette. Invita a confronti, semina domande, induce ripensamenti. Anche su se stessi. Terzo. Il pensiero cinese continuamente evocato non è quello del capitalismo di stato attuale e della società senza democrazia di cui sappiamo. È il pensiero della tradizione cinese che si confronta, qui, con quello che va da Parmenide e Eraclito ai filosofi occidentali del Novecento. Tre avvertenze utili per chi non conosce ancora Jullien: per questi, il libro è un’ottima introduzione al suo pensiero, così come si presenta come una sintesi efficace per chi l’ha già frequentato. Un quarto consiglio, forse: si può leggere la postfazione prima di passare ai capitoli che, dopo l’introduzione, la precedono. Si affronteranno i “venti contrasti” – venti coppie di concetti, ma ancor più di atteggiamenti, di posture del pensiero: prima fra tutte quella che mette al centro la questione dell’essere e non la quotidiana umana dimensione del vivere – avendo già messo a fuoco l’essenziale del metodo di Jullien, annunciato fin dalle prime pagine e via via precisato da diversi punti di vista: in sintesi, “non si tratta di comparare, cercando di identificare delle somiglianze e delle differenze per caratterizzare l’uno e l’altro pensiero; organizzando un faccia a faccia tra queste lingue e questi pensieri, si tratta piuttosto di permettere un loro reciproco squadrarsi, da cui risulti una riflessione da una parte e dall’altra, simultaneamente.” “Smarcarsi” dai capisaldi impliciti nel nostro modo di pensare (dove nostro rimanda non tanto a un’appartenenza quanto a un limite), riconsiderarli da fuori, da quell’altrove che il pensiero cinese – sotto la guida di Jullien – è capace di offrire. Andare oltre la pur feconda riflessione sul rapporto fra avere e essere (le due dimensioni che, fin dal titolo del suo fortunato libro di fine anni ’70, Erich Fromm metteva in alternativa), per addentrarsi in quella sull’irriducibilità del pensiero – e quindi della questione dell’essere, fulcro del pensiero occidentale – al vivere, che precede il pensiero e, appunto, non se ne lascia ricomprendere. Non si tratta di puro aggiornamento culturale. Tutt’altro: quella che entra in gioco è la posizione da tenere nell’attuale confronto fra culture, nel quale occorre “difendere le fecondità culturali, non le identità”. Divenendo consapevoli allora dei limiti del multiculturalismo, in cui gli scarti fra le culture si cristallizzano in diversità che, pur impegnandosi a convivere, restano separate, ognuna sterilmente chiusa in se stessa. E non meno “politicamente pericoloso”, oltre che culturalmente infruttuoso, è il “pigro relativismo culturale”: “in entrambi i casi non si incontra l’Altro” e si mette in campo, di fatto, “un conflitto di Volontà di potenza ammantate di buona volontà”. Mettersi a confronto davvero, fino a giungere a ritenere i proprio principi niente altro che il frutto di una possibilità fra altre (non per questo rinunciabile, ma sempre rivedibile sì), non è un semplice invito. Costruire un “comune dell’umano”, aperto e in divenire, al posto di un “universale” ormai ridotto sulla difensiva, è una necessità. Inderogabile. L’aveva detto anche in un altro libro recente, Jullien (Sull’intimità, Cortina 2014), richiamando la “necessità in cui ci troviamo, oggi, in un’Europa che si disgrega, ma le cui categorie mentali, più che unificare, standardizzano il mondo intero: la necessità di ripensare l’originalità della cultura europea e di misurarne anzitutto la storicità.”