Ágnes Heller, Riccardo Mazzeo, Il vento e il vortice. Utopie, distopie, storia e limiti dell’immaginazione, Erickson 2016 (pp. 152, euro 14,50)
Enzo Traverso, Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta, Feltrinelli 2016 (pp. 248, euro 25)
Parte dai sogni, Ágnes Heller, da quelli in cui, come sosteneva Freud, si realizza un desiderio, e rileva che somigliano alle utopie.
Così come gli altri, che chiamiamo incubi, sono in qualche modo affini alle distopie. Facciamo bei sogni e brutti sogni così come siamo capaci di immaginare mondi migliori o peggiori, secondo le epoche. Perché l’immaginazione è una facoltà, come tutte le altre di cui disponiamo, immersa nella storia che viviamo. Sicché “le utopie sono creazioni dell’immaginazione che combinano alcune credenze della loro epoca con la passione della speranza”, quanto le distopie con la “passione della paura”. Una volta definite queste categorie, la filosofa ungherese può accompagnarci nel viaggio che dalle utopie del desiderio, quelle antiche, dell'”età dell’oro”, ci porta alle utopie della società e di uno Stato giusti, com’è quella di Thomas More (e ancor prima, matrice di molte utopie successive, quella di Platone e della sua Repubblica), non tralasciando immagini rivelatrici come Il paese di Cuccagna di Bruegel e Il giardino delle delizie di Bosch. Ma a distinguere fra loro le utopie è soprattutto l’immaginare il mondo migliore nel passato o invece nel futuro: la Bibbia, pur evocando l’Eden, proietta nel futuro il desiderio di un mondo pacifico e felice, così come fa Marx, in cui vediamo all’opera l’idea di “progresso”, l’idea che il nuovo sarà meglio del vecchio, nel XX secolo più volte smentita e pure ancor oggi viva e vegeta. Con una sostanziale mutazione però: le utopie sociali sono scomparse. Dopo che le utopie totalitarie del Novecento si sono rivelate come realtà distopiche, a dominare l’orizzonte dell’immaginazione restano quelle scientifiche, e tecnologiche, sia in versione ottimistica (la tecnologia come panacea di ogni male) che pessimistica: pensiamo ai romanzi e ai film d’ispirazione distopica che ci presentano un mondo desertificato da guerre o sempre più spesso da catastrofi ambientali o reso irriconoscibile da totalitarismi globali. Ma che cosa si può leggere in questo approdo del pensiero critico che sembra non saper più praticare l’utopia ed essersi rifugiato nella distopia? Quella che traspare è la convinzione che “non resti più alcuna spiegazione significativa del mondo”. Il pensiero distopico ha sbarrato la porta all’immaginazione utopica. Basta scorrere i romanzi che hanno costellato il secolo scorso e hanno fatto la loro comparsa all’inizio del XXI (dal Mondo nuovo di Huxley e 1984 di Orwell a La strada di McCarthy e Sottomissione di Houellebeck) per rendersi conto che sono proprio questi romanzi a mostrarci “quanto possiamo perdere” e, soprattutto i più recenti, a ricordarci che “le potenzialità oscure e perturbanti” che vediamo realizzate nel racconto sono già operanti, e visibili, nel presente. Non lo si può negare, in conclusione: l’immaginazione distopica è una fondamentale “manifestazione della nostra coscienza storica contemporanea”. La delusione per le rivoluzioni tradite (fossero quella russa o il Sessantotto) ha ceduto il passo all’incapacità di credere in un futuro migliore. O addirittura nel Futuro.
E’ su quella delusione che lavora il libro di Traverso: siamo certi che si tratti di un sentimento intervenuto dopo le sconfitte che le aspirazioni al cambiamento hanno subito nel Novecento? o non è invece, la malinconia, una dimensione insita in quella che – tenacemente – continuiamo a chiamare “cultura di sinistra”, ossia l'”insieme di teorie ed esperienze, idee e sentimenti, passioni e utopie” che ha attraversato il XIX e il XX secolo? L’autore propende decisamente per questa seconda interpretazione, e la sostanzia di osservazioni che riguardano il momento in cui viviamo, dopo che “la fine del comunismo ha troncato la dialettica fra passato e futuro” che connotava la memoria orientata al domani propria del marxismo. Per cui “l’eclissi delle utopie che accompagna il nostro tempo presentista ha condotto la memoria marxista alla soglia dell’estinzione”, e “questo mutamento ha favorito la riscoperta di una visione malinconica della storia come rimemorazione dei vinti”, di cui Walter Benjamin è stato “l’interprete più profondo”. E lungimirante, perché questa “visione malinconica appartiene a una tradizione nascosta del marxismo” e oggi chi, al di là di ogni precisa connotazione ideologica, continua a credere che “un altro mondo è possibile” non può sfuggire al “sapore malinconico” che emana dal “passaggio da un’epoca che, nonostante tutte le sconfitte subite, rimaneva decifrabile, a una nuova era di minacce globali senza esiti prevedibili”. Ma non si tratta semplicemente di struggimento per un passato che non può tornare: la malinconia è il sentimento intelligente di una Sinistra che “non si rassegna all’ordine globale fissato del neoliberismo, ma non può fare a meno, per affilare le sue armi critiche, d’identificarsi empaticamente con i vinti della storia”. E dunque, questa malinconia non deve essere elusa o rimossa. Fra malinconia e utopia, del resto, è stato sempre operante un nesso profondo, capace di metabolizzare delusioni e sconfitte e tener aperto un ‘orizzonte di attesa e mantenere operante una prospettiva storica. Ci si ritrova nelle pagine di questo libro, ci si conferma nella percezione di una differenza non più solo ideologica, ma si direbbe antropologica, con quanti nei vinti non sanno ravvedere che dei losers, dei perdenti, e viene da pensare che non solo al neoliberismo – e al suo dogma che l’economia, i mercati, siano un dato oggettivo, naturale, e perciò incontrovertibile, insuperabile – la Sinistra abbia ceduto, ma anche al sentimento esibito dell’ottimismo che pervade, come una norma non scritta ma ineludibile, pena l’esclusione, la nostra vita pubblica, e pretende di imporsi come tonalità dominate anche in quella privata.