Stefano Massini, Qualcosa sui Lehman, Mondadori 2016 (pp. 773, euro 24)
La narrazione, fatta di scene e dialoghi ripresi sempre al presente, prende il lettore: gli comunica l’incalzare delle occasioni che non ci si può lasciar sfuggire, degli affari che se non li fai tu li fa un altro, della competizione che non conosce tregua né confini. I personaggi si muovono per lo più in interni – uffici dirigenziali, residenze sontuose: le strade e i grattacieli della metropoli restano sullo sfondo – nei quali si giocano le sorti dell’impresa e della famiglia, in un confronto senza esclusione di colpi: tra fratelli prima, i tre fratelli Lehman, trasferitisi dalla Baviera, dove erano allevatori, per andare a commerciare cotone in Alabama e poi altro (caffè, carbone, petrolio) a New York. E dopo i fratelli la seconda generazione – i cugini Lehman, anche loro uniti nell’intento capitale di far soldi, ma divisi da differenze di carattere, di modi di stare al mondo – e di seguito la terza, che dovrà dividere il potere con dei partner potenti e famelici, in un progressivo allargamento della sfera d’azione che dall’economia reale – l’industria, le ferrovie, le compagnie aeree – sempre più decisamente trasmigra a quella virtuale, in cui ciò che si commercia non è altro che il denaro, senza mediazione, né di merci né di servizi.
E’ una narrazione che mescola i generi – narrativa, poesia, saggistica, fumetto persino – quella che Massini sa mettere in scena: sì, perché è a certi filmoni – tipo C’era una volta in America – che si pensa dopo qualche decina di pagine (e del resto sono loro, i Lehman a finanziare, fra tante imprese, anche quella del cinema: Via col vento è una loro creatura). Ma non si tratta di un film: è un romanzo questo, ed è inevitabile, come sempre quando ci si immerge in una di queste saghe imprenditorial-familiari, che tornino alla mente i Buddenbrook, ma soprattutto – complice la fede ebraica, di cui i Lehman sono seguaci e praticanti – è a Singer (Israel J.) che questi fratelli Ashkenazi d’America fanno pensare, almeno fin quando trafficano in cose e non in titoli finanziari.
Senonché, l’autore stesso precisa nel sottotitolo, più che un romanzo, è un “romanzo/ballata” quello che ha scritto. E allora ci si spiega perché dopo qualche centinaio di pagine si è cominciata a sentire una voce, che dipana il racconto e lo colorisce, e la si riconosce: è quella di Paolini. Impossibile: la storia dei Lehman Brothers è già arrivata al palcoscenico. Lehman trilogy: l’ultima regia di Ronconi. Eppure, vorremmo sentire lui, Paolini, a leggerla, recitarla, cavandone i risvolti drammatici, ma anche umoristici a volte, che vi si intrecciano.
Decine, centinaia di pagine: un librone, Ma non ti devi spaventare, mi ha detto un amico: va a capo continuamente… Già: vuole essere anche un poema questo romanzo/ballata. E’ all’epica che aspira, un’epica fuori tempo, che suona inevitabilmente – e consapevolmente – grottesca nell’età della “ragion cinica”, in cui sono ammessi “tracolli” ma non tragedie. Non è un caso, probabilmente, che il racconto non giunga al crack della Lehman Brothers nel 2008, la più rovinosa bancarotta che l’Occidente ricordi, all’origine della crisi da cui non siamo ancora usciti.
Ma questa è un’altra storia, si usa dire.
Un’altra storia: la nostra.