el médol ovvero: la cava nella storia di uomini e donne sulla “Via del marmo”, a cura di Daniele Bonetti (Serle 2017)
Un libro di storia orale, non un libro di storia, avverte in apertura la prefazione di chi ha curato questo libro: un racconto che non si basa sull’inoppugnabilità di documenti scritti da chi non c’è più, quindi, ma sul calore e le inflessioni irripetibili delle memorie di chi ancora vive, e ricorda, traendo spunto dai luoghi nei quali questa memoria è inscritta. Il racconto dei testimoni è costellato di riferimenti alle località che nelle dieci frazioni di Serle sono state sede dell’attività estrattiva: è una conoscenza radicata del territorio che si manifesta, sedimentata nel lavoro di cavatori che sono rimasti sempre anche contadini (“dopo la giornata al médol andavo a vangare, avevamo un sito, con un pezzetto di vigneto”). O carbonai.
E non hanno mai abbandonato la passione inveterata della caccia, un tempo risorsa non secondaria per la tavola, nel contesto di un’economia agrosilvopastorale fondamentalmente di sussistenza. Sono soprattutto la testimonianza delle donne ad evidenziarlo: “il mio papà era un fonsér, andava a raccogliere i funghi, aveva le sue poste; riempivamo una stanza di funghi tagliati a striscioline e quando erano secchi li vendevamo”, “non c’erano tanti soldi, riuscivamo a vendere bene solo i marroni belli grossi, facevamo lo scambio: un quintale di castagne per un quintale di furmintù”. Un’economia che dovette tuttavia essere a lungo integrata dalle rimesse degli emigranti, occupati nei bacini estrattivi di altre regioni italiane o nelle miniere di altri paesi: “mio papà Silvio era contadino e andava saltuariamente a lavorare di qua e di là: a Cogne, in Svizzera, è andato fino in Belgio. Anche la mamma ha corso: a un certo punto è andata con lui in Belgio, ha dovuto andarci perché là i lavoratori emigrati prendevano i soldi…”.
Io stesso ricordo quando da bambino andavo con la mia famiglia in villeggiatura a Serle, e la padrona di casa ci raccontava del figlio ritratto nella fotografia sopra il camino: scampato al disastro di Marcinelle e in seguito morto di “male ai polomoni”, del male di chi per anni aveva lavorato nelle miniere di carbone.
Pic e pala, ponta e masèta: gli strumenti del minatore sono anche quelli di chi va nel periodo fra le due guerre a lavorare nelle cave di Botticino e Nuvolera, percorrendo le tappe di una carriera che dal bócia che eri appena entrato in cava ti fa scalpellino; da manovale, cavatore e in qualche caso capocava. Decenni di lavoro nei quali strumenti e metodi di lavoro cambiano, conoscendo evoluzioni drastiche, come quella rappresentata dall’introduzione del martello pneumatico, all’inizio degli anni ’60 (“con il compressore è cambiato un bel po’ il modo di cavare i blocchi, quando non c’era ancora per fare i fori bisognava scavare tutto a mano, facevamo i fori con la punta e la mazzetta”). E altre innovazioni si succedono: “All’inizio io avevo l’argano, il compressore e basta: ero da solo e lavoravo come gli antichi egiziani, con i rulli di legno, i tronchi per far scorrere i blocchi sul piano. Per risparmiare mio papà tagliava i rulli di olmo”. Poi sono arrivato gli escavatori e, negli anni ’80, il filo diamantato (“quando è arrivato il filo diamantato e lo abbiamo provato… una bomba! Una bomba perché con poca acqua faceva un sacco di metri di taglio”).
Memoria viva di cambiamenti che ridefiniscono radicalmente i contenuti professionali del lavoro dei cavatori, testimoni oculari della grande trasformazione e insieme custodi di una memoria antica, appresa dai vecchi incontrati da ragazzi nelle cave: “Mi dicevano i medolér più anziani, che avevano già allora quaranta o cinquanta anni, che quando in gioventù avevano cominciato loro a lavorare il marmo i cunei di ferro non c’erano, c’erano quelli di legno. Dovevano fare il canale lo stesso, ma poi ci mettevano i cunei di legno e con l’acqua li facevano gonfiare, scoppiare, Era una roba de macc perché ci volevano almeno tre giorni prima che il cuneo cominciasse a gonfiarsi!
Con le nuove tecnologie le cave si svuotano (“un tempo eravamo anche venticinque o trenta in una cava”, poi è arrivata la ruspa, “che faceva il lavoro per quaranta persone”) e anche i rapporti di lavoro cambiano: “con il martello pneumatico il padrone sapeva esattamente quanto lavoro si poteva fare in un’ora. Non lo si poteva lasciare fermo, e se un martello era fermo, dopo un quarto d’ora lo prendeva il capo e si metteva lui a lavorare, per farti capire che bisognava usarlo in continuazione.” Il tempo della cava, che per generazioni aveva in qualche misura conservato le cadenze del tempo della campagna, subisce un mutamento inimmaginabile: “con l’arrivo dei martelli io non andavo più così volentieri a lavorare, perché non stavi più fermo neanche un attimo. Una volta in tre o quattro si impiegava anche una giornata ad estrarre un blocco, adesso subito dopo uno bisognava farne un altro e dopo un altro ancora… e ne dovevi fare un sacco di strada in cava! Prima invece, uno di qua e uno di là, picchiavamo con la mazzetta, ma ogni tanto se la contaem so con il nostro socio, e si passava meglio la giornata. Adesso il compressore ti rompe i timpani, c’è un sacco di polvere e poi una fretta, una fretta! Negli ultimi anni, col blocco ancora sulla bancata ti dicevano: “Guarda che alle undici c’è qui il camion a portarlo via!”
I nuovi ritmi impressi al lavoro di cava comportano un aggravio dei costi umani che da sempre questa attività aveva imposto. Insieme ai nomi dei luoghi sono quelli delle persone che hanno perso la vita in cava a ricorrere nelle testimonianze. La storia di molte famiglie è segnata dal lutto (“nel ’57 ho perso due fratelli in cava, tutti e due insieme! Uno aveva solo sedici anni e l’altro diciotto”), ma anche dalla rabbia che morti che si potevano evitare hanno lasciato dietro di sé: “nella mia famiglia ho avuto due infortuni mortali: uno mio figlio e l’altro mio fratello, morti in cava (…) dopo dicono: è il destino! No! Non è il destino! Bisogna anche vedere che cosa si fa, come lo si fa…”. E alla carenza grave di misure di sicurezza tiene dietro quella delle tutele assicurative: “quando facevo il bócia mi dicevano: sta’ mia a parlà de assicurasiù… perché non siamo assicurati neanche noialtri! Allora non c’era mica la legge, è arrivata nel ’65-66, quando l’Ispettorato del Lavoro ha girato per tutte le cave a controllare i registri: quante persone c’erano e quante non c’erano, perché allora sai cosa facevano? Assicuravano sette o otto persone senza il nome e il primo infortunio che succedeva… era di quello assicurato! Io lo so perché… era così. Era inutile andare a reclamare.”
Condizioni di lavoro dure e inique come queste sono impresse nella memoria di quanti nell’immediato dopoguerra hanno lavorato in cave come la Vicentina, attivate da investitori forestieri, lontani dal territorio da cui traevano i loro profitti, ma un’altra memoria anima le testimonianze dei cavatori che hanno vissuto il “boom delle cave”, giunto a Serle solo attorno al ’60, ed è la memoria di un periodo di speranze e soddisfazioni: “i clienti venivano qui loro a cercare la pietra, la vendevamo praticamente a quelli che arrivavano: erano i veronesi, allora… te lo rubavano il blocco! Non dovevamo andare a cercare i clienti, venivano loro in cava.” E alla domanda crescente faceva riscontro il basso costo richiesto dall’attivazione di una cava: “allora andavi in Comune, pagavi cinquecento[mila] lire e potevi fare l’assaggio per un anno e, dopo un anno, se era andata bene aprivi il tuo médol”, “al Comune si pagava l’affitto, ma non in base a quello che la cava rendeva”, adesso si pesa e si dà un tanto in base al peso del materiale cavato, non si paga più solo l’affitto. Prima pagavamo cinquecentomila lire all’anno, allora pagavamo poco, siamo stati fortunati perché si pagava poco. Non spendevamo tanti soldi un tempo, e anche per fare un mutuo pagavamo poco di interessi.” E “l’esplosivo allora si andava qui a Rezzato a prenderlo, io andavo con la motocicletta, lo mettevo in uno scatolone sopra il serbatoio: dentro la polvere, la miccia, tutto quello che mi serviva… Non ti diceva niente nessuno. Adesso andrei dritto in galera!”
Più della coscienza indotta da una dimensione comunitaria del lavoro, la memoria collettiva appare allora segnata dai valori dell’intraprendenza personale e dal racconto di avventure imprenditoriali vissute in piena autonomia: “in totale di cave ne ho aperte otto, quattro a Serle e quattro sotto il Comune di Nuvolento (…) Il geometra ero io, l’ingegnere della strada ero io, e la strada l’ho fatta così… a occhio! (…) Ma non con la banca, niente banca, se io avessi avuto un debito con la banca sarei andato in malora mille volte (…) Comunque… fra assaggi e cave effettive ne avrò aperte dieci o dodici. Allora non c’erano le regole che ci sono adesso…”.
La cava diventa luogo di emancipazione, economica e sociale, che si concretizza nella proprietà di una casa (“quando mi sono sposato ho rischiato a prendere una cava mia: eravamo tre fratelli e ognuno ha guadagnato abbastanza per costruire la sua casa”), a costo di carichi di lavoro che ci si autoimpone nella consapevolezza, si direbbe, che la fortuna non durerà: “quando lavoravi sotto gli altri lavoravi le tue otto ore e prendevi la giornata, ma quando lavoravi per conto tuo lavoravi anche dieci, dodici ore al giorno, anche se pioveva o nevicava.”
E infatti il declino arriva, dopo pochi anni: “quelli di Serle hanno fatto i soldi dal ’64 fino agli anni ’90, ma adesso o non c’è più la vena o non è più cercata o comunque non va, non va. C’è chi è andato avanti a cercare, è andato, andato, andato e poi si è riempito di debiti e ha dovuto lasciare”, “allora venivano loro, i clienti, e io avevo i miei, mi chiamavano per telefono… non come adesso! Tra gli anni ’80 e il ’90 cambia tutto.”
Continuare a cavare vuol dire adeguarsi ad aggiornamenti tecnologici che impongono investimenti colossali: “Adesso sono le macchine che lavorano, le macchine! Una volta il blocco era al massimo centoventi quintali, adesso è di trecento, eh? Scherziamo? L’escavatore prende su i blocchi grossi così, adesso i camion hanno quattro assi e una portata di trecento quintali, sono tutti carichi eccezionali.” E la certezza del risultato non è mai garatita: “adesso ci sono i cicli negativi nelle vendite (…) Prima, se smettevi da una parte, potevi ricominciare dall’altra! Adesso no…”.
Sono ormai rari i giovani che scelgono di continuare il lavoro della cava. Nessuno di loro si riconoscerebbe nella conclusione cui giunge uno dei vecchi cavatori che hanno offerto la loro testimonianza: “la pietra è sempre stata la mia passione”, constata, ed è una cultura del lavoro quella che si intravede in queste parole.
Una cultura che ha connotato insieme ad altre la modernizzazione del nostro territorio. Ed è tramontata.
Giungendo così all’epilogo della vicenda che le testimonianze hanno evocato, ci si rende conto come la memoria in esse racchiusa si sia fatta, pagina dopo pagina, storia. Una storia che ne richiama altre, come quella della Valle del Garza e di paesi come Nave, investiti dall’inedita trasformazione indotta dal avvio di nuove attività produttive (là il tondino, qui la pietra) che dopo pochi decenni le hanno abbandonate. Non prima di aver inciso sulle viti e i destini familiari, e aver lasciato tracce profonde. Nel paesaggio come nelle mentalità.