Amalia Signorelli, La vita al tempo della crisi, Einaudi 2016 (pp. 111, euro 12)
Stefano Massini, Lavoro, Il Mulino 2016 (pp. 131, euro 12)
“Capire qualcosa di ciò che è stata la crisi per chi l’ha vissuta dal basso, nelle costanti modifiche (quasi sempre peggiorative) della propria quotidianità e, per giunta, spesso senza padroneggiare gli strumenti necessari per averne una comprensione piena”.
Non è un economista a porsi questo obiettivo, ma un’antropologa culturale quale è Amalia Signorelli, capace sì di cogliere la differenza di questa crisi rispetto alle precedenti – essendo, quella che ancora viviamo, frutto di “precise scelte di politica finanziaria” – ma interessata soprattutto a mettere in luce un dato, esistenziale e culturale insieme, che accomuna l’uomo della strada, i politici, la maggior parte degli stessi economisti che dovrebbero darceli quegli strumenti per capire. E invece no: la crisi è, da un lato, vissuta come una catastrofe naturale impossibile da prevedere e, dall’altro, descritta in termini esclusivamente economici ma, si badi, ispirati dalla propaganda neoliberista che presenta l’economia come una realtà oggettiva. Naturale, appunto. E imperscrutabile la sua parte, la crisi ma anche l’uscita dalla crisi che si pretende si stia profilando. Senonché, “se ci si colloca dal punto di vista delle esperienze della vita quotidiana dei cittadini comuni, non si direbbe che la crisi sia finita. Ma non importa: “come la fase minacciosa del default incombente e imminente, così anche questa ripresa viene narrata come una sorta di misterioso effetto di forze, di agenti che restano poco analizzati, salvo attribuire la ripresa ad alcuni provvedimenti governativi, ai quali però molti critici attribuiscono un’efficacia più elettorale che economica.” Di fatto, all’ottimismo della classe politica corrisponde un sentimento opposto fra i cittadini che si possono incontrare nei supermercati, nelle sale d’aspetto dei medici, sui mezzi di trasporto pubblici: “ingrigiti e intristiti, scettici e pessimisti”. Al punto da giustificare la definizione della crisi attuale come un’“apocalissi culturale”, per usare le parole del maestro degli antropologi culturali italiani, Ernesto De Martino. Vale a dire, non un momentaneo disorientamento, ma una situazione in cui “non si sa più dare un significato e un valore ai propri accadimenti”, uno stare nella storia – tanto collettiva quanto personale – come se non ci si stesse. E in ciò, la mancanza di lavoro svolge un ruolo determinante, perché nella nostra tradizione culturale “il lavoro non è solo uno strumento di sussistenza; è anche un elemento costitutivo delle identità individuali e collettive e matrice di valori.”
Ci si spiega allora perché la parola lavoro si sia negli utlimi anni “colorata suo malgrado di una patina opaca”, come la parola futuro, non a caso. Le ragioni ce le spiega Stefano Massini – sì, ancora lui: l’autore della saga dei Lehman Brothers di cui ci siamo occupati la scorsa settimana: fra la società e l’immagine del lavoro si è celebrato un vero e proprio un divorzio. E’ un’aperta contrapposizione quella che si è instaurata fra lavoro e diritti dei lavoratori, e dunque non ci si sorprenda se i sogni che un’ipotetica vincita al Totocalcio (o al suo succedaneo attuale, il Gratta e vinci) sono radicalmente cambiati nel giro di pochi decenni. Se nel primo dopoguerra il desiderio era quello di aprire un’attività, mettersi in proprio, cambiar lavoro, oggi si è spostato sul licenziarsi, vivere di rendita, comprare immobili, diventare turisti a tempo pieno. Perché – la conclusione di Massini è molto vicina a quella di Signorelli – sentiamo che la parola lavoro “aveva un senso che rappresentava molto di più di ciò che noi oggi le attribuiamo. Forse percepiamo un vago sentore di origini preziose, e intuiamo un brillare lontano. Ma è solo l’eco di un discorso andato.”