Georges Simenon, La casa dei Krull, Adelphi 2017 (pp. 210, euro 19)
Non è vero che quando di uno scrittore morto da decenni vien pubblicato un altro, ennesimo romanzo, ti devi aspettare una delusione.
O meglio: è vero in molti casi, ma non quando lo scrittore è Simenon, di cui sembrano essere rimasti, inediti in Italia, non solo romanzi che si leggono d’un fiato come questo, ma che addirittura propongono storie inquietanti perché in qualche modo attuali.
Il paesaggio sembra di conoscerlo già: è la periferia squallida e senza speranza, col capolinea del tram e il canale con le chiuse, nella quale si ha l’impressione che da un momento all’altro debba spuntare la pipa di Maigret, e sembra di vederlo entrare, il commissario, nella mescita gestita dai Krull, al piano terreno della loro casa, e ordinare una birra, o un calvados. E invece no. Maigret non c’è. Non ci sono la sua intelligenza e la sua empatia ad arginare la desolazione disperata che abita i luoghi e le anime che popolano questa tragedia annunciata, fin dalle prime pagine. Perché i Krull sono crucchi, sono tedeschi che vivono e lavorano in questa città francese di provincia da anni, ma gli anni sono quelli del nazismo, minacciosamente vicino anche se non ancora in armi. Ma forse, diversi sarebbero in ogni modo sentiti, i Krull, perché un diverso occorre dove la vita è dura, per affibbiargli un qualche responsabilità, non importa se inconsistente, immaginaria. Anzi, meno è definita e meglio farà al caso: “ogni volta che succede qualcosa nel quartiere, la colpa è comunque nostra”, lamenta uno dei Krull, quello che studia per diventare medico. E così accade anche quando si trova il cadavere di una ragazza, assassinata. Dai sospetti si passa in poche ore ai tentativi di linciaggio.
Tutto chiaro dunque? Si tratta di “una storia esemplare di odio populista” (come ha scritto pochi giorni fa la Repubblica)? della “deriva ineluttabile che ci attende quando indichiamo nello Straniero il responsabile di ogni male”?
Certamente. Ma Simenon non si accontenta del romanzo a tesi. C’è dell’altro in questa storia, ed è uno dei personaggi a farlo venire a galla, un Krull anche lui, ma appena arrivato dalla Germania e del tutto indifferente, al contrario dei parenti, al giudizio della gente: non è tanto per il fatto di essere stranieri, immigrati, che sulla famiglia si riversano diffidenza, sospetti e infine odio distruttivo. Il peccato dei Krull è non esserlo abbastanza, stranieri. Non esserlo fino in fondo, vergognarsi di esserlo, e dunque “fare come la gente del posto, scimmiottando le usanze locali”. E in questo modo diventando involontariamente – questo è il punto – specchio della miseria degli altri, e delle loro miserie.
Uno specchio da spezzare, per non vedercisi, miseri quali si è.