Venerdì 6 marzo, ore 17.30. Incontro con Raffaele Masto.
Presentazione di Africa, Tam editore 2016 (pp. 152, euro 9,50)
Con l’autore dialoga Carlo Simoni
Africa è uno di primi titoli che figurano nel catalogo della neonata casa editrice milanese Tam, nata da un’idea di un giornalista del Corriere della Sera per proporre “piccoli libri eccellenti”, essenziali, sobri sin dalla copertina senza immagini, con l’ambizione di dare l’avvio a un tamtam di informazioni.
E di idee, a giudicare da questo piccolo libro: bastano le prime quaranta pagine a dare al lettore la sensazione di aver messo ordine nella congerie di notizie che quotidianamente i giornali ci danno sull’Africa – se non giriamo velocemente pagina, scoraggiati da una cronaca che raramente sa fare sintesi e dare strumenti per farsi un’idea complessiva.
“Negli ultimi secoli l’Africa – questa la constatazione di fondo – pur cambiando volto, non ha mai cambiato ruolo: ha sempre contribuito a finanziare gli equilibri mondiali, e continua a farlo tuttora.” Gli spettacolari aumenti del Pil di alcuni stati non contraddicono purtroppo questo quadro: sono il frutto dei flussi di denaro straniero che si riversano su di essi per dotarli di opere pubbliche – strade, porti, aeroporti – che rappresentano il corrispettivo di concessioni petrolifere e minerarie e sono oltretutto funzionali al trasferimento delle materie prime, anche agricole. Che cosa ne deriva? Che la Nigeria, ad esempio (ma è solo uno dei molti casi presi in esame e spiegati con efficacia), paese leader sul piano economico, è “un non-stato dal punto di vista della sicurezza e della giustizia”: i quasi 190 milioni di nigeriani che si potrebbero credere beneficiari di quel favoloso Pil sono fra gli abitanti più poveri del continente, costretti a vivere sotto il tallone di eserciti privati assoldati dalle compagnie petrolifere e vessati dalle violenze della setta islamista Boko Haram.
Ma a confermare l’idea che il colonialismo non sia finito e prosegua con altri mezzi è soprattutto il fenomeno del land grabbing: la Cina, in primo luogo, ma anche gli stati arabi, comprano o affittano per tempi lunghissimi immensi territori, di cui necessitano per ottenere prodotti alimentari e fonti energetiche da paesi che a loro volta lottano per raggiungere l’autosufficienza alimentare. E a permettere che questo avvenga è una classe politica formata in gran parte da dittatori, nuovi ricchi e funzionari che proteggono con l’uso della forza le loro posizioni.
Conclusione: l’Africa “ancora una volta tende a svolgere la funzione di serbatoio piuttosto che di mercato”. Serbatoio di materie prime e risorse, ma anche di donne e uomini in carne ed ossa: i migranti di oggi “viaggiano stipati in imbarcazioni come un tempo gli schiavi” (non fosse per una differenza, che Erri De Luca ha spesso sottolineato: i criminali che organizzano la traversata del Mediterraneo riscuotono il loro compenso prima di partire, e non all’arrivo, come accadeva ai negrieri, che dunque avevano maggiore interesse che la merce giungesse integra alla consegna).
Ma occorre soprattutto aver presente che a partire non sono i più poveri, gli affamati: sono essenzialmente i giovani, che fuggono da situazioni di conflitto o economicamente insostenibili. Sono forze vitali di cui l’Africa viene privata, mentre le fasce più povere delle popolazione continuano a pagare il prezzo maggiore delle disuguaglianze crescenti a livello mondiale. Il dramma della migrazione – se ne può dedurre – non è dunque il succedaneo di quello della povertà estrema, non ne costituisce un’evoluzione che avrebbe almeno il merito di dargli attraverso i media una visibilità planetaria: un dramma si somma all’altro, il primo guadagnando la ribalta dell’informazione, almeno per ora, il secondo continuando a perpetuarsi senza far notizia.
Come giudicheranno allora, gli storici, la situazione attuale dell’Africa? nel segno della continuità con l’epoca dello schiavismo e del colonialismo o in quello della discontinuità, segnata appunto dalle lotte anticoloniali e dalla conquista dell’indipendenza? L’autore non ha dubbi: “il saccheggio, che ha certamente cambiato modi e formule, continua”.
Eppure. Eppure l’autore, che ammette di poter essere ascritto al campo dell'”afropessimismo”, alla fine fa propria la prospettiva di Laurent, un giovane intellettuale ivoriano, rappresentante di quella pur crescente schiera di nuovi cittadini acculturati che nuove borghesie corrotte e despoti al governo umiliano in lavori sottopagati o addirittura non retribuiti quando le finanze statali traballano. L’Africa ha resistito allo sfruttamento secolare dell’Occidente, osserva Laurent: “pensi che adesso, in pochi decenni, qualche cinese, alcuni jihadisti folli e qualche miliardo di dollari delle monarchie del Golfo possano cambiarci? No, l’Africa finirà per dire la sua. Siamo giovani, abbiamo una forza vitale sconosciuta in altri continenti, dal punto di vista demografico cresciamo in modo esponenziale. Il mondo dovrà fare i conti con noi.”
Una speranza grande, radicata nella propria storia e nella propria cultura e nello stesso tempo capace di prefigurare con lucido coraggio una situazione radicalmente diversa dall’attuale . Una speranza che ci ricorda il valore etico e il ruolo politico dell’utopia, non sinonimo di sogno irrealizzabile ma componente imprescindibile di ogni orizzonte di cambiamento. Ed è allora un’indicazione che riguarda l’Africa ma non solo, quella che ci viene da queste pagine: il contrario del pessimismo, oggi, forse non è l’ottimismo, ma quel pensiero critico che si chiama(va) utopia. Quello stesso pensiero che permette ancora di scrivere libri come questo.