Andrea Cisi, La piena, minimum fax 2017 (pp. 421, euro 16)
“Sono una persona mediamente equilibrata”, dichiarava Andrea Cisi in apertura al romanzo scritto una quindicina d’anni fa, per ammettere subito, però, che “c’è solo una cosa che esula dal mio medio equilibrio, un aspetto confuso della mia permanenza su questo pianeta. Il lavoro.”
E non poteva essere diversamente, visto che il lavoro era per lui, a quell’epoca, fatto di occupazioni precarie, disparate, ma accomunate da un tratto unificante: nonostante la domanda che il giovane si sentiva rivolgere all’inizio di ciascuno di questi lavori – hai esperienza? AYE. Are you experienced? era appunto il titolo del romanzo (Bevivino editore 2003) – l’impressione che ne ricavava era che “sul luogo di lavoro la gente non abbia più la pazienza di insegnarti le cose, di aspettare che tu capisca, di aspettare che impari”.
Dal precariato al lavoro in fabbrica, la piccola fabbrica, ma con regolare assunzione: è un altro mondo quello che ci presenta Cronache dalla ditta (Mondadori 2008), ma il dato di fondo rimane: il lavoro è comunque svuotato di contenuti professionali, e dunque lo si impara in fretta e poi non resta da far altro che farlo nell’identico modo per anni. La sua dequalificazione ha marciato di pari passo con l’automazione. Non resta, al protagonista, che opporre un’ostinata resistenza, sforzandosi di “mettere in pratica quella disciplina interiore che permette, con il solo ausilio dell’annullamento forzato della mente, di mascherare il grigio della vita operaia di ogni giorni, con un bel ‘rosa ottimismo’ fittizio e irreale”. Nessun riferimento a esercizi di meditazione o a pratiche zen: la salvezza lui la trova nella cura degli affetti, nel rispetto dei gesti quotidiani, nelle abitudini che occorre coltivare con pazienza per dare un colore ai propri giorni e al paesaggio desolato in cui si vive, e, oltre a questo, non occorre dirlo, una risorsa decisiva si rivela la scrittura. Una scrittura intessuta di ironia, venata di un umorismo imprevedibile, spesso surreale, e ad un tempo circostanziato e concreto nel riportare i modi della parlata cremonese.
Li ritroviamo tutti, questi elementi, nell’ultimo romanzo. Sia pure aggiornati: il paesaggio è quello dei capannoni abbandonati, segni desolati e desolanti della desertificazione industriale degli ultimi anni; la fabbrica è la stessa, e il clima non è sostanzialmente cambiato (nessuno ha tessera sindacale lì dentro: “se qualcuno ha la tessera punti dell’Agip è già tanto”); il lavoro è quello, povero e monotono, così come ricorrono le figure conosciute nel romanzo precedente, sia pure con qualche nuova presenza (le ucraine della cooperativa pulizie, qualche giovane lavorante assunto temporaneamente). Anche il tempo libero non ha trovato di meglio che le partite di calcetto, la cui cronaca si alterna a quella delle ore in fabbrica con una regolarità che comunica come la ripetitività abbia invaso anche i momenti che della ripetitività del lavoro dovrebbero risarcire.
E’ sul fronte privato, familiare, che si registrano novità, prima fra tutte l’avvenuto matrimonio del protagonista: la fidanzata di Cronache dalla ditta è ora moglie, e madre di un bambino (il “nano”). Ma è proprio qui che qualcosa è silenziosamente andato storto, e minaccia di peggiorare: il grigiore della vita di fabbrica sembra essersi infiltrato anche nella vita della coppia: in lei si fa evidente “la stanchezza di rimandare la vita”; in lui la sensazione di “attraversare questa vita come un’onda nel mare, senza lasciare tracce, senza bagnare niente che non sia già acqua”, e fra i due si insinua sempre più spesso “la tensione di chi non ha più nulla da dirsi”.
Non a caso, stando dietro a questa strisciante perdita di senso delle relazioni, la scrittura alterna registri diversi, la lingua si fa a tratti più letteraria, come per riuscire a rendere lo scolorirsi progressivo della vita, l’affiorare del pericolo d’una disfatta esistenziale che trova nella minaccia della piena del grande fiume un corrispettivo metaforico: “piove di giugno, piove e fa male all’uva e al mio umore che si muove in un labirinto e sente la piena arrivare. Presto diventerà travolgente”, e tutto quello che si è opposto all’insensatezza dell’esistenza cederà al “vuoto che ci sta ingoiando”, alla solitudine della casa lasciata da Lisa, che se n’è andata, incinta del secondo figlio, a vivere da sua madre col primo.
Eppure qualcosa resta, ed è molto: il sorriso del “nano”. “Quel sorriso che è il tesoro più prezioso che possiedi. Quel sorriso che sei tu quando avevi i suoi anni. Quel sorriso che sei tu ed è Lisa”.
E insieme a quel sorriso, la franchezza affettuosa ma ferma della madre:
“Non fare come il papà.
Come il papà?
Come lui con me. Non fare così con Lisa. Stai diventando come lui.
Cioè come?
Che non sai cosa fare. Che sei deluso e pensi che da solo staresti meglio. Che ci sei ma non ci sei e pensi a una vita diversa. Non c’è una vita diversa.”
L’amarezza, che aveva sempre venato l’ironia di Cisi, si è fatta dolore, rasenta la disperazione, e non basta più, allora, la presa di distanza che appunto l’ironia consentiva. Occorre altro, ed è un sentimento più vasto, che salva dalla “piena”, un sentimento di pietas, verso gli altri e verso di sé, e forse anche un atto di umiltà, dell’uomo, con le certezze che pretende di possedere, di fronte alla comprensione, più aderente alla vita, della donna.
Quando la piena arriverà, quella vera, lui sarà là con gli altri a mettere sacchi perché l’argine tenga.
Poi cambierà posto di lavoro, entrerà nella grande fabbrica della zona, il tubificio, e intanto la moglie metterà al mondo il secondo “nano”.
“Cosa fa?”, chiede il fratellino guardando il nuovo arrivato.
“Mah, per ora niente. E’ appena entrato nelle nostre vite”, risponde il padre.
“Ma ci sta?”
Gli accarezzo i capelli col palmo di una mano. Sorrido.
“Ci stringiamo”.
Perché – l’ha detto sua madre – non c’è una vita diversa, una vita da rincorrere fuggendo da quella che si ha. C’è questa, e non resta che viverla. A costo di stringersi, per viverla. E raccontarla.
Dal Corriere della Sera Brescia del 26 aprile 2017.
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