Marco Revelli, Populismo 2.0, Einaudi 2017 (pp. 155, euro 12)
Populismo, parola pigliatutto che nasconde due circostanze essenziali: non è un fenomeno nuovo, e ci sono populismi diversi fra loro.
Fra riferimenti puntuali ad emergenze populiste del passato e a tipologie del fenomeno ravvisabili nel presente (l’America di Trump, la Brexit, il lepenismo), Revelli rintraccia comunque un’origine comune ad atteggiamenti politici nati, nel fuoco della globalizzazione, dalla torsione oligarchica della democrazia , dalla sconfitta storica del lavoro e dallo sbando culturale e politico delle forze che lo rappresentavano, dal declassamento del ceto medio e dalla crisi irreversibile dei meccanismi dell'”ascensore sociale”. E’ questo l’humus dal quale sono germogliate convinzioni diffuse e atteggiamenti trasversali: la figura di un popolo come entità coesa e “prepolitica”; una dialettica verticale (popolo contro élite, caste, usurpatori vari) al posto di quella orizzontale che aveva regolato il confronto politico fra partiti nel secolo scorso riassumendosi nella contrapposizione fra destra e sinistra; l’idea, vaga ma mobilitante, di un tradimento avvenuto da parte di un soggetto, variamente definibile, estraneo al “popolo”, e perciò la richiesta di una restituzione del potere non ottenibile attraverso le istituzioni rappresentative ma soltanto grazie a leader più o meno carismatici. Un mosaico di immagini e rivendicazioni in cui non compare mai la richiesta di ridefinire gli assetti proprietari e gli equilibri sociali, ma solo quella di sostituire il personale di governo. Tutte cose già viste: persino il termine “antipolitica” non rappresenta una novità (lo si trova niente meno nel Thomas Mann della Considerazioni di un impolitico).
La novità va se mai rintracciata nella collusione fra populismi e neoliberismo: è questa la chiave che il saggio ci offre per analizzare, ad esempio, la “rivoluzione conservatrice renziana”, la sua volontà di rafforzare l’esecutivo e, rovescio della medaglia, l’insofferenza nei confronti dei corpi intermedi, nella logica di un “populismo dall’alto”, un “populismo di governo” che fa del nostro Paese un “laboratorio privilegiato” di un neopopulismo precoce e polimorfo, in cui il renzismo è stato preceduto dal berlusconismo ed è affiancato dal grillismo, l’uno e l’altro populismi “tecnologicamente modificati”, dalla tv e dal web. Non per questo assimilabili fra loro e pure, innegabilmente, accomunati, tutt’e tre, dalla tendenza alla personalizzazione del potere, alla “dis-intermediazione”, alle promesse irrealizzabili che fanno sperare inun'”immediatezza” delle soluzioni puntualmente smentita dalla concreta situazione politica, economica e sociale, nazionale e sovranazionale.
Così analizzata, la situazione italiana appare la peggiore, gravata com’è da un declino economico che non ha confronti e dalla rabbia di una massa di “homeless della politica”, una rabbia che sale dal basso ma – priva com’è dell’orientamento che le permetterebbe di riconoscere come la lotta di classe non sia finita ma sia piuttosto stata vinta dal capitale (finanziario) contro il lavoro – si lascia usare dall’alto.
Tutto è perduto dunque? No: “basterebbero forse dei segnali chiari per disinnescare almeno in parte quelle mine vaganti nella post-deomocarzia incombente”, provvedimenti raggruppabili in quello che un tempo si chiamava «riformismo» e che oggi appare «rivoluzionario»…”.