Kjell Westö, Miraggio 1938, Iperborea 2017 (pp. 448, euro 18,50)
“I protagonisti nascondono le cicatrici del passato come meglio possono, e hanno solo vaghi sospetti e premonizioni di quanto il futuro ha in serbo per loro”.
È l’autore stesso a definire la condizione nella quale si muovono l’avvocato Claes Thune e la sua segretaria, Matilda Wiik, diversi per esperienze ed estrazione sociale, ma entrambi sospesi entro un orizzonte stretto fra la memoria – bruciante in lei – delle violenze della guerra civile che ha sconvolto la Finlandia appena dopo la prima guerra mondiale e la minaccia incombente della seconda, avvertita nel “tanfo” che il nazismo – siamo nel 1938 – diffonde: “il tanfo del sacrificio imminente”. La speranza che aveva percorso l’Europa dopo la “grande mattanza umana”, che “le persone fino allora rimaste meri sudditi stessero per diventare cittadini a pieno diritto”, che l’essere umano potesse cambiare, è ormai tramontata. Lo stesso circolo che da anni raccoglieva con cadenza regolare l’avvocato e i suoi amici, professionisti della buona borghesia formatasi nel periodo fra le due guerre, si dissolve: l’aggressività politica e militare di Hitler, e l’antisemitismo montante, travolgono ideali e appartenenze. La giustizia, dopo una breve, illusoria parentesi, è tornata ad essere privilegio di pochi.
In questo quadro, si fanno via via più sensibili fra i due protagonisti assonanze che loro stessi avvertono con circospezione, come non potessero cedervi, educati dalla vita a una prudenza diffidente, e pure animati ancora da un desiderio sotterraneo ma inestinguibile di incontro con l’altro. La sommessa fedeltà di lui alle proprie idee antinazionaliste, a un senso della propria dignità non sbandierato ma intimamente irrinunciabile; la determinazione di lei nel perseguire la vendetta riparatrice che si è prefissa, e che pure non sembra guastare la sua umanità, la sua capacità di “accorgersi delle solitudini”: una medesima condizione di infelicità nutre l’interesse reciproco, senza tuttavia poter contrastare un destino che intreccia saldamente le vicende individuali con quelle collettive, le vite con la storia. Ed è nella prosa distesa, nella narrazione che sa governare l’andirivieni della memoria e i diversi piani sui quali dispone avvenimenti e sensazioni, che questo intreccio, ancor più dei fatti che alimentano la trama, dà sostanza al romanzo e ne rende avvincente la lettura.