Claudio Morandini, Le pietre, Exorma 2017 (pp. 189, euro 14,50)
“Voialtri che state in città credete che basti dire che non ci sono più le stagioni, e vi pare di aver fatto lavorare il cervello. (…)
Però così è facile, troppo facile. In realtà noi, che sul ritmo delle stagioni ci abbiamo sempre campato, ci siamo accorti che non è che le stagioni non ci siano più: ce ne sono troppe, piuttosto, le une ammucchiate addosso alle altre, e si alternano come fossero mesi o settimane.” Per cui, i montanari di Sostigno, da secoli abituati alla transumanza verso gli alpeggi di Testagno, sono ora costretti allo spostamento non più una volta ma addirittura sette volte all’anno. E’ tutto un andare a venire con le loro bestie e le masserizie, e fosse tutto qui. Il torrente cambia letto a sorpresa, ora distruggendo gli orti ora inondando il paese. Ma è ancora altro a rendere difficile la vita: le pietre. Portate dal torrente, o cadute dalle montagne che sovrastano il paese e a poco a poco si disfano. Quel che non si era mai visto, però, e che queste pietre sembrano vive: camminano come animali, crescono come frutti, penetrano persino nella casa di due pensionati che in montagna avevano cercato la pace e che dalla montagna sembrano invece perseguitati, con la loro villetta assediata, il soggiorno invaso. Dalle pietre.
Una metafora dell’estraneità, o dell’ostilità addirittura, della montagna rispetto alla città? Come nel precedente Neve cane piede (Exorma 2015), il racconto scoraggia ogni interpretazione che cerchi di sciogliere l’enigmaticità della situazione. Neanche la vita dura dei montanari e lo spopolamento del loro habitat, pur richiamati esplicitamente, appaiono il riferimento ispiratore: la triste constatazione che “quando piove sui poveri piovono pietre” non si potrebbe dire fuori luogo, ma il film di Ken Loach – il cui titolo deriva appunto da quel proverbio inglese – non c’entra. Come risultano infondate le interpretazioni in chiave di castigo divino avanzate dal parroco, o quelle di stampo scientifico che i geologi – altra gente di città – propongono.
Non c’è da cercar significati reconditi o metafore velate e suggestive nei racconti di Morandini. Lui si preoccupa, è vero, di dirci da dove gli è venuta l’idea (una vecchia “storia religiosa e civile” della sua Val d’Aosta, in questo caso, in cui si parlava di “pierre frappants” viste nella valle di Gressoney nel 1908), ma poi la narrazione va per la sua strada e basta a se stessa.
Anche le assonanze letterarie lasciano il tempo che trovano, presto contraddette dal seguito della lettura: se Neve cane piede faceva pensare – lo si notava in questi “appunti per i lettori” oltre un anno fa – un po’ a Rigoni Stern, per l’ambiente, poi al Verga di Rosso Malpelo e infine all’Uomo nell’Olocene di Frisch, qui sono se mai Dino Buzzati e i misteri ambigui dei suoi racconti a venire in mente. Ma è come se l’andamento tranquillo della narrazione, e la semplicità della lingua cui ricorre (appartiene a uno di loro, a un paesano, la voce narrante), finissero con lo stemperare l’inquietante inspiegabilità del fenomeno, e con l’annegare la sua drammaticità nella rassegnazione di chi in montagna si è ostinato a restare. Con le pietre occorre convivere, anche quando si fanno invadenti e ti entrano in casa.
Sono se mai certe immagini di Magritte a balenare, alla fine: quelle enormi pietre che se ne stanno posate sul pavimento lucido di una stanza…