Eugenio Borgna, L’ascolto gentile. Racconti clinici, Einaudi 2017 (pp. 179, euro 18)
Si aggiunge con questo libro un nuovo capitolo alla grande opera che da anni Borgna va componendo, ogni volta illuminando temi di fondo con il suo linguaggio duttile, denso di immagini e di riferimenti culturali che esulano dal campo della psichiatria (bisognosa “della poesia se vuole guardare negli abissi insondabili della interiorità”).
Persuadendoci, in questo modo, che il suo discorso riguarda tutti e coinvolge le relazioni che anche noi, non malati, intratteniamo. Il dialogo, l’“ascolto gentile”, non è solo condizione che apre al medico la comprensione della sofferenza del paziente: “perché possa sgorgare una relazione (…) è necessario conoscere le emozioni che vivono in noi, e le emozioni che vivono nell’altro da noi con cui entriamo in dialogo. Ma come riconoscere la cascata infinita delle nostre e delle altrui emozioni (…)? Solo non stancandoci mai di guardare dentro di noi in questa ricerca continua, di quello che noi siamo e di quello che si anima nella nostra interiorità.” Che è come dire che la gentilezza dell’ascolto, lungi dal risolversi nella cortesia che ogni giorno, in diverse occasioni, ci viene offerta in quanto clienti, neanche può limitarsi ad essere attenzione e disponibilità verso l’altro, ma richiede un atteggiamento di impegno attivo e costante rivolto su di sé: “La introspezione è la premessa alla immedesimazione”. E la fiducia reciproca è la sostanza, fragile ma imprescindibile, di una relazione effettiva, sensata, proficua.
Sempre teso a persuadere, più che a dimostrare, il discorso di Borgna è comunque ricco di indicazioni, di prescrizioni inaggirabili, di distinguo non negoziabili fra psichiatria come relazione d’ascolto e pratica di senso da un lato, e, dall’altro, psichiatria “risucchiata nel solco delle scienze naturali” e quindi portata a sostituire ai significati le cause. Non si risolve tuttavia in un esercizio critico di natura teorica, ma mostra sempre la sua origine dall’esperienza, e fondante, in questo senso, appare quella condotta nel manicomio di Novara, sulla quale l’autore si sofferma prima di proporci i racconti clinici che formano il libro. A partire da un caso di depressione, di quella depressione, non psicotica, “che ciascuno di noi può incontrare nella sua vita” – sotto forma di “malinconia, o tristezza dell’anima, o male di vivere” – e che, nella vicenda trattata, trova una soluzione “nel silenzio, ancor più che (nelle) parole” dello psichiatra, il quale non arretra davanti agli annunci di suicidio della paziente, sapendo – sulla scorta dell’intuizione di Holderlin – che proprio “dove è il pericolo, cresce | anche ciò che dà salvezza”. Diverso il caso di una depressione psicotica, nella quale si rendono indispensabili farmaci antidepressivi, utili tuttavia nella misura in cui chi cura garantisce “una presenza silenziosa” capace di “testimoniare una vicinanza intessuta di ascolto e gentilezza, di accoglienza e tenerezza.” Un atteggiamento che non può recedere neanche in presenza di casi solitamente identificati con il termine – evocativo di inguaribilità – di schizofrenia, “una forma di vita dolorosa e straziante nella quale continuano nondimeno a risplendere le luci della umanità”.
Un atteggiamento, quello indicato da Borgna, che non riguarda comunque solo chi si occupa professionalmente di queste sofferenze: non si stanca, l’autore, di chiederci di non dimenticare che “l’essere lambiti dalla tristezza, e dal dolore dell’anima, è esperienza comune a ciascuno di noi, ma siamo tentati di non coglierne i significati se non quando siamo noi a soffrirne”.