Francesca Manfredi, Un buon posto dove stare, La nave di Teseo 2017 (pp. 165, euro 16)
Lucia Berlin, La donna che scriveva racconti, Bollati Boringhieri 2016 (pp. 462, euro 18,50)
Normali, quotidiane, convenzioni e abitudini si scoprono invece fragili, ambigue.
Non basta fare come gli altri, fare quello “che fanno tutti” (“cercano la cosa giusta da fare. E la cosa giusta da fare è sempre la stessa, la più semplice. La cosa giusta è quella che fanno tutti”).
Può capitare – come succede al personaggio di uno dei racconti di Francesca Manfredi– di pensare “di aver fatto la cosa giusta, e che presto o tardi avrei potuto farne altrettante, di cose giuste, se solo mi ci fossi messo”, ma la buona volontà, la fiducia, non mettono al riparo da una reciproca estraneità le coppie, nelle quali uno si trova a chiedersi chi sia davvero l’altro, lo sconosciuto con cui vive, né preservano da una invisibile opacità le famiglie, in cui genitori e figli, apparentemente vicini, vivono in realtà in mondi separati.
E sono proprio i bambini, in molti casi, ad avere la peggio, come se non essere stati ancora assorbiti dalle convenzioni che precariamente regolano le relazioni li rendesse vittime designate: di adulti incerti di se stessi, nella sostanza inaffidabili. Sfuggenti, diversi da quel che si credeva: la propria madre può di colpo, senza una ragione evidente, assumere “un’espressione che non le avevo mai visto”, racconta la figlia: “Ancora più dura del solito, e nello stesso tempo incredibilmente fragile. Per una volta non riesco a capire cosa pensa, e mi mette paura”. E’ il perturbante, l’affacciarsi improvviso dell’estraneo nel familiare, che cova in questi racconti e affiora, per un attimo, prima che tutto torni come prima, e cioè indefinito, insicuro, discontinuo, tanto che l’unico, temporaneo rimedio, è rifugiarsi un “buon posto dove stare”, fosse pure lo scantinato della propria casa: non importa dove trovarlo questo posto, basta che sia “da qualche parte, al sicuro”, come recita uno dei titoli.
E’ un inquietudine fredda – inutile si sarebbe tentati di dire – che queste storie lasciano. Sempre che di storie si possa parlare, perché qui l’arte del racconto alla Carver (evocato in molte delle recensioni che il libro, premio Campiello Opera Prima, ha avuto) si ha l’impressione che sia distillata al punto da… evaporare. Che cioè il pathos del non detto sia un risultato che neanche ci si è proposti.
E’ in casi come questo che viene da chiedersi se quello di non dir tutto, di dire anzi quasi niente lasciando al lettore il lavoro di immaginare il contesto, il prima e il dopo delle vite dei personaggi, debba essere un comandamento ormai inviolabile per chi scrive racconti. Se debba ritenersi per sempre andato il tempo di quei racconti che sapevano delineare il romanzo che, non per semplicemente per attenersi alla stringatezza, avevano deciso di non essere (Čechov, pur da più parti evocato come antesignano della short story evasiva e minimale, ne ha scritti), o quegli altri, che pur rispettando l’imperativo della laconicità, e dell’allusività, sanno condurti, uno dopo l’altro, in una trama che di fatto fa romanzo. Un romanzo fatto di racconti, come quello di Lucia Berlin.
Non è la storia di una scrittrice, e non sono racconti sull’arte dello scrivere, quelli di Lucia Berlin. Il titolo italiano ha soppiantato (come spesso accade, per ragioni imperscrutabili) quello originale, che dava subito il quadro della situazione, e dell’intenzione ironica, sconfinante a volte in un cinismo di facciata, dell’autrice: Manuale per donne delle pulizie. Che è poi il titolo di uno dei racconti, uno dei più rappresentativi del mondo in cui si svolgono queste storie. Un mondo in cui occupano un posto significativo le case in cui la protagonista si trova a fare uno dei molti lavori che, per forza di cose, sperimenta: “Amo le case, le cose che mi raccontano, e questo è uno dei motivi per cui non mi dispiace fare la donna delle pulizie. E’ proprio come leggere un libro”. Anche quando in quelle case si viene a contatto con donne spesso sole, anziane, un po’ via di testa: “Mi segue di stanza in stanza ripetendomi sempre le stesse cose. Io mi sto rincoglionendo insieme a lei. Continuo a dire che me ne vado, ma mi fa pena. Sono l’unica persona con cui possa parlare. Suo marito è un avvocato, gioca a golf e ha un’amante. Non credo che la signora Jessel lo sappia, o che se lo ricordi. Le donne delle pulizie sanno tutto.” Il distacco con cui Berlin racconta lascia non di rado emergere un’empatia che suona sincera, anche se sorvegliata sempre e mai tale da incrinare la distanza con cui racconta delle donne incontrate. Anche quando parla di sé, delle proprie vicende, dei propri fallimenti, lo fa come se parlasse di un’altra, di una delle tante con cui ha avuto a che fare. Il che può sorprendere in un libro sostanzialmente autobiografico. Non un romanzo però. O forse: un romanzo fatto di capitoli coincidenti con altrettanti racconti che, evocando i diversi mestieri conosciuti e le traversie vissute, si richiamano fra loro mantenendo tuttavia la loro compiutezza, la loro autonomia. Quasi a dire che, per quanto si possa aderire alla convinzione che l’identità di una persona non sta nei suoi documenti e nel suo curricolo ma nel racconto della sua esistenza, se la si vuol restituire non è la forma del romanzo che oggi può farlo, ma un seguito di quadri, di racconti, spezzati e discontinui come le vite. Racconti in cui non sembra succedere niente, se non il passare del tempo, il consumarsi dei giorni, senza rimpianti o struggimenti: vivere significa lasciar andare quel che si è vissuto e vivere il giorno che si sta vivendo. Anche quando quel che capita appare difficile da accettare e suscita sgomento: “Di solito il pensiero di invecchiare non mi crea problemi”, ma ci sono situazioni che possono “gettare nel panico”. Le lavanderie a gettoni, per esempio: “erano un problema anche quando ero giovane. Richiedono troppo tempo (…). Mentre stai seduto lì, tutta la vita ti passa davanti agli occhi, come se stessi affogando.” O l’agenzia di viaggi a cui la donna da poco tempo rimasta sola si rivolge per continuare l’abitudine di passare l’estate in Messico e in America Latina: “le avevano chiesto quando doveva rientrare. Lei era rimasta in silenzio per un po’, raggelata. Non aveva bisogno di tornare (…). Non doveva andare in nessun posto, non doveva rendere conto di niente a nessuno.”