Cees Noteboom, Cerchi infiniti. Viaggi in Giappone, Iperborea 2017 (pp. 183, euro 15)
E’ ancora possibile viaggiare? Il viaggio può essere ancora scoperta o quantomeno confronto con una realtà diversa, una cultura non omologata, un altrove non del tutto assimilabile ai luoghi in cui si vive?
Domande che da almeno mezzo secolo attraversano la pratica del turismo. Hans Magnus Enzensberger (il suo Una teoria del turismo è di metà anni ’60) ha osservato che “Il turismo , ideato per liberare i suoi seguaci dalla società, prese la società in viaggio con sé. Da allora sulla faccia dei compagni di viaggio, si poté leggere ciò che si voleva dimenticare”, e non diversamente Gianni Celati, in Avventure in Africa (Feltrinelli 2000), nota che quelli che viaggiano con lui “in comune hanno questo: che evitano di guardarsi l’un con l’altro, quasi si vergognassero di riconoscersi. Ognuno di noi si muove in due metri cubi di vuoto spinto, fuori dalla sostanza dei commerci quotidiani, destinato a guardare tutto come da dietro un vetro. Ognuno è tra i muri della sua privacy che si è portato dietro da casa, ha raggiunto il suo fine, ma forse ha già perso per strada il resto…”.
Osservazioni simili si ritrovano nei diari di viaggio di Noteboom, e il fatto che il paese più volte visitato sia il Giappone non limita la loro portata: è di noi che si parla, di noi in quanto turisti, al di là dei luoghi scelti per i nostri viaggi. Di noi che raggiungiamo un paese straniero già carichi di immaginari letterarie e preconfezionate convinzioni culturali, e politiche non di rado: “Perché devo andare in giro come una botte piena di pregiudizi e informazioni?” si chiede Noteboom, consapevole del fatto che il pericolo che si corre è che il viaggio si riduca a verifica delle idee che già si hanno, che il conoscere non ammetta che il riconoscere.
Ma la responsabilità non è solo nostra: nel primo hotel in cui ci si ferma, appena atterrati, le pareti sono occupate da immagini delle Hawaii: appena arrivati in Giappone “si è già altrove”. Un altrove che potremmo veder riprodotto in qualsiasi altra parte del mondo. Impossibile quindi incontrare davvero l’altro, percepire la diversità di luoghi e persone? No, se ci si abbandona a quel che si vede, si sente, si assapora; se si usa la propria guida non come un doppio della realtà ma solo come uno strumento per dare spessore storico a ciò che si guarda; se non ci si preoccupa di vedere, e di capire, tutto e si accetta la casualità dell’incontro, la parzialità inevitabile delle proprie impressioni. Riflette questo atteggiamento la scrittura di Noteboom, fatta di notazioni dettate dal momento, brevi digressioni, piccoli racconti, a volte non privi di humour, come quello della visita a una seduta del parlamento: “Io non capisco nulla, mi faccio spiegare dove siedono i comunisti e dove i liberali, ma per me non è che una sala molto grande piena di signori in abito grigio (…). Come diceva mia zia dopo un’opera di Pinter: Non ho capito niente, ma è stato molto bello.” E allo humour si alternano spunti di riflessione, dettati ad esempio dalla proverbiale passione per la fotografia dei giapponesi: “Padri fotografano figli, figli fotografano padri, famiglie intere spariranno dentro albi di foto fino al momento in cui nessuno saprà più chi fossero.” Di giorno in giorno, tuttavia, si fa strada la percezione di una radicale alterità, custodita in concetti del tutto estranei a un europeo ( “mono no aware”: il «pathos delle cose», il «riconoscimento della speciale bellezza dell’effimero»”), in paesaggi nati da concezioni lontanissime dalle nostre: “per i giapponesi la natura è animata, in senso letterale”, mentre “noi abbiamo trattato la natura come un nemico da reprimere”. Di qui la differenza abissale fra i nostri giardini fatti di alberi potati e cespugli sagomati e i giardini zen, in cui “la simmetria è una bestemmia, non fosse altro per il fatto che in natura non esiste”.
Ma il Giappone delle masse metropolitane, dei treni superveloci, dell’innovazione tecnologica, dell’organizzazione meticolosa e pervasiva del tempo? Be’, sì, l’autore, durante un tour fra i templi e i luoghi di culto, deve riconoscere di “essere in cerca di un Giappone che in realtà esisteva ancora soltanto come eccezione, come se un giapponese in Europa cercasse esclusivamente alcuni monasteri benedettini”. Eppure, “tutte quelle cose – suicidi rituali compresi – devono essere ancora presenti in mille forme e pensieri dietro le facciate tirate a lucido, dietro l’immagine occidentale della potenza industriale del futuro”. Un tema questo, del rapporto fra vecchio e nuovo, tradizione e modernità esasperata, sul quale l’autore torna, e che rivede senza timore di contraddirsi, passando da uno scritto all’altro, dalle impressioni di un viaggio a quelle del successivo. Spostarsi nello spazio, del resto, è anche attraversare tempi diversi, cercare il passato nel presente, arrivando sempre troppo tardi, senza tuttavia restare estranei a quel che è stato. Non solo in Giappone. Lo si diceva: questo è un libro che offre spunti che vanno al di là dei luoghi visitati, per tentare una fenomenologia del viaggio e della ricerca della diversità, dei desideri e delle contraddizioni (vissute spesso come delusioni) cui si espone il turista dei nostri tempi: “Chi a Firenze vuole vedere esclusivamente il Rinascimento sa di ingannarsi e al tempo stesso entra in contatto con forme di verità. Forme deformate, verità sfilacciate, qualcosa che è esistito e non c’è più ma c’è ancora.”