Murakami Haruki, Il mestiere dello scrittore, Einaudi 2017 (pp. 189, euro 18)
Una dichiarazione preliminare: i romanzieri, assicura Murakami, non sono persone generose, sono egoisti e competitivi, fra loro. Non però nei confronti di quanti si affacciano all’esperienza della scrittura.
Ma attenzione: se accolgono con simpatia– differentemente da attori e sportivi, per esempio – e addirittura incoraggiano gli esordienti, è perché un nuovo scrittore anche se ha successo non fa ombra all’altro. La narrativa, infatti, è come “un ring di lotta libera sul quale può salire chiunque lo desideri. (…) I lottatori già sul ring – gli scrittori – fin dall’inizio sono più o meno rassegnati alla facilità con cui si entra in campo. (…) Tuttavia, se salire sul ring non presenta particolari difficoltà, restarci a lungo è una faticaccia. (…) Un certo talento e una certa fermezza sono necessari”, anche se “di questa particolare capacità non si sa molto”: scrivere è un dono che non si sa da dove arriva ma che, se lo si è ricevuto, va protetto con cura. E così subentra un'”utile selezione”, fra quelli che lasciano dopo uno due romanzi, magari anche buoni, e quelli che dello scrivere sanno fare un “mestiere” e hanno la capacità di riproporsi puntualmente ai lettori: “il numero di romanzieri non ha limiti, ma lo spazio nelle librerie sì”.
Non sono comunque i premi letterari né i giudizi dei critici a sancire la qualità di uno scrittore. E’ altro: la gioia che si prova a scrivere innanzitutto, una gioia piena, che risponde a un desiderio vero, perché – non si deve dimenticare – è bene scrivere solo quando se ne ha voglia; in secondo luogo, a confermare la genuinità del proprio talento, è, con molta evidenza, il fatto di continuare ad avere lettori.
Per quanto indefinibile sia, ciò che occorre per diventare uno scrittore richiede comunque alcune pratiche. Primo, leggere in continuazione, “far passare dentro di sé il maggior numero possibile di storie”. Secondo, osservare attentamente eventi, persone, e rifletterci senza esprimere giudizi: “collezionare dettagli”, “ingredienti originali” che nutriranno la narrazione. Terzo: crearsi una propria lingua, un proprio stile, un proprio ritmo, semplificando e purificando il racconto non aggiungendovi particolari ma “per sottrazione”, e non lasciandosi condizionare dal fatto di non aver da parte un patrimonio di esperienze fuori dal comune cui attingere. Si scrive “combinando quel poco che si ha”. Ma anche organizzando metodicamente la propria giornata. E qui si entra davvero nell’officina – espressione spesso abusata, ma appropriata in questo caso – dello scrittore, e sono le pagine migliori del libro, quelle in cui Murakami racconta del suo scrivere – e cita Karen Blixen – “senza speranza e senza disperazione”, cinque ore al giorno, per sei mesi, un anno, o due, o tre, fino a terminare la prima stesura e da quel momento iniziare la sequela di revisioni che porteranno alla versione definitiva del libro. Avendo sempre presente la necessità di considerare il tempo come un amico, l’alleato più prezioso per arrivare a scrivere davvero il romanzo che si voleva scrivere, e senza dimenticare mai che un altro amico va tenuto in conto: il proprio corpo. Scrivere e fare una vita sana sono due aspetti di un unico modo di vivere, lontanissimo dall’immagine stereotipata del genio che coltiva la sregolatezza come condizione della sua creatività.
Non è un saggio autobiografico quello che ha voluto scrivere, assicura in conclusione Murakami, ma chi lo ama troverà in questo libro notizie sulla sua vita e la sua personalità, un po’ come in L’arte di correre (Einaudi 2013); chi non lo ama vi troverà comunque una brillante e argomentata demitizzazione degli scrittori e della scrittura: i romanzieri non sono maîtres à penser, e la scrittura non è l’apice delle attività umane. Si può vivere senza scrivere. E senza leggere, come il numero di “lettori forti” (lettori di un libro al mese), non entusiasmante neanche in Giappone, dimostra…