Richard Ford, Tra loro, Feltrinelli 2017 (pp. 144, euro 15)
Perché si racconta dei propri genitori? Perché, anche coloro che si provano a scrivere senza sognarsi di vedersi pubblicati ma per una delle molte altre ragioni per cui si scrive, raccontano innanzitutto di loro, e di se stessi al tempo in cui vivevano con loro?
Non perché si trattasse di persone fuori dal comune, né perché è se stessi che si ritiene eccezionali, e dunque meritevoli di un’autobiografia che parta da chi ci ha messo al mondo. Non è certo questo che muove Richard Ford, e tanto meno l’idea che nei tratti del padre e della madre, e nella loro vicenda, si nasconda un destino, il proprio. O che nelle loro personalità e nella qualità del loro rapporto si nascondano la cifra del proprio carattere o addirittura le ragioni profonde delle proprio modo di stare nel mondo. Non sono i rimandi di significato cui le storie familiari sensibili alla cultura della psicoanalisi ci hanno abituato a guidare questa narrazione: sono i fatti, gli avvenimenti che segnano l’esistenza di due persone come tante, che di particolare e irripetibile hanno avuto però la ventura di essere stati i tuoi genitori e che dunque senti il bisogno di “sentire vicino” e di “onorare” (così, lo stesso Ford, in una recente intervista). Il che non esclude ma anzi alimenta la voglia di capire. Di capire chi erano, che cosa volevano dalla vita, pur sapendo – ammette l’autore – che si tratta di un desiderio destinato a rimanere insoddisfatto: “io cerco di affrontare la loro diversità ed essi mi eludono, come fanno tutti i genitori”. Perché i genitori creano per noi “una sorta di ‘separatezza congiunta’ e un utile mistero, per cui anche quando ci troviamo insieme a loro siamo soli”. E tuttavia, “più vediamo pienamente i nostri genitori, più li vediamo come li vede il mondo, maggiori sono le nostre possibilità di vedere il mondo com’è”. Non mancano passaggi di questo tipo in questo libro, ma non si tratta di conclusioni, di approdi che dalle vicende contino di aver estratto concetti. Perché quel che conta sono solo i fatti. E’ questo l’insegnamento principale che sia il padre che la madre gli hanno lasciato: nella constatazione che “questa è la vita” sembra riassumersi il loro lascito: “La psicologia non era una scienza che praticassero più della storia. Non erano indagatori per natura, non si chiedevano come si sentissero a proposito di questo o di quello”, e non si trattava né di stoica accettazione della vita né di indifferenza ai suoi casi. La loro convinzione, o meglio: la loro pratica, concreta e quotidiana, era quella di prenderla per quella che era, semplicemente. Stare ai fatti, appunto.
Ed è questo il principio che sembra essere trasmigrato nella scrittura di Ford: “ho cercato di essere il più possibile oggettivo – spiega nell’intervista già richiamata, riportata nell’inserto libri della Stampa lo scorso 27 maggio – non elaborare teorie, descrivere solo i fatti: l’amore non è una teoria, ma una serie di infiniti piccoli atti”.
La volontà ripetutamente dichiarata di attenersi ai fatti perché quelli, solo quelli rivelano le intenzioni, potrebbe essere intesa come una molto americana professione di behaviorismo, e invece si rivela con sempre maggiore chiarezza un’espressione di pudore, di rispetto e riconoscimento di un’alterità irriducibile, condizione imprescindibile perché il ricordo non sfumi nella commemorazione, garanzia vera della pietas che il figlio sa tributare al padre e alla madre riandando ai loro giorni, alle loro speranze, alla loro fine.