Paolo Nori, Le parole senza le cose, Laterza 2016 (pp. 98, euro 14)
Paolo Nori, Undici treni, Marcos y Marcos 2017 (pp. 157, euro 16)
Roberto Livi, La terra si muove, Marcos y Marcos 2017 (pp. 190, euro 16)
“(…) era un blogger, perché aveva un blog, era uno youtuber, perché aveva un account su YouTube, era stato un twitter, perché aveva avuto un account su Twitter, era stato, molto tempo prima, un facebooker, perché aveva avuto, molto tempo prima, un profilo Facebook, non era mai stato un instagrammer, perché non aveva mai avuto un account su Instagram però era un traduttorer, perché faceva delle traduzioni, e un romanzer, perché scriveva dei romanzi (…).”
Ci si può presentare così? si può definire in questo modo, romanzer, lo scrittore al tempo dei social? Sì, se si è convinti – come il Nori di Undici treni – che per parlare di cose serie si debba ricorrere a un’ironia vagamente demenziale. E allora si può dire anche del senso di spaesamento indotto dal vorticoso cambiamento del paesaggio della quotidianità, dalla sempre minore corrispondenza fra le parole e le cose (ancora Nori, in Le parole senza le cose):, perché c’è stato “un periodo dove le cose eran le cose, non come adesso, che non si capisce più niente, che non dico sia peggio, magari è anche meglio, però è un’altra cosa”. Per fare un esempio, il mondo in cui sono nati i cinquantenni di oggi, fra cui l’autore, “era un mondo dove i telefoni facevano ancora quei rumori così forti, così frequenti e campanellosi che per noi voglion dire «telefono», anche se abbiam dei telefoni che coi campanelli non c’entran più niente”. E’ “nostalgia” quella che nasce dalla “propensione a identificarci con gli oggetti che usiamo” e che nel frattempo hanno cambiato fisionomia: “oggetti che conservano il loro nome ma mancano come oggetti”. E non si tratta solo delle cose: anche i luoghi si fanno irriconoscibili. Metti certe librerie, come la Feltrinelli di Parma, tramutatasi da “libreria piccola e stipata di libri” a “grande libreria su tre piani”, “piena di bottiglie di vino, di prosciutti, di abat-jours, di appliques, di tortellini, di cancelleria, di caffè, di bomboloni” (e l’elenco prosegue), mentre i libri sono “pochissimi e solo là in fondo, alla fine della sala”, dove “un cartello con una freccia puntata verso l’alto (dice) «I libri sono ai piani superiori»”.
In questo mondo che cambia faccia a ritmi insostenibili, anche sapere chi si è diventa una faccenda dalla soluzione aleatoria: “Ero così abituato al mio comportamento da brava persona, che arrivato a un certo punto della vita ho cominciato a pensare di essere davvero una brava persona”, recita l’incipit del romanzo di Roberto Livi.
Ma perché il modo migliore di parlare di questi autori sembra citarli, quasi che esprimere impressioni e giudizi su di loro senza aderire alle loro parole li travisasse? Perché il che cosa dicono non è distinguibile dal come lo dicono, o meglio: la loro scelta stilistica, la loro lingua è protagonista della pagina, non semplice veicolo ma sostanza dei loro ragionamenti apparentemente sconclusionati. Questi autori: non solo Nori e Livi. Anche Ugo Cornia (“ c’è una cosa che fino a prima che nascessi tu non c’era, e invece dopo poco che sei nato c’è stata, quindi questa cosa per te sembrerà necessaria e normale, per sempre”, leggiamo nel suo ultimo libro: Buchi, Feltrinelli 2016), e Daniele Benati (“Tranne me e te, tutto il mondo è pieno di gente strana. E poi anche te sei un po’ strano”, per citare una delle tante sentenze raccolte in Opere complete di Learco Pignagnoli, Aliberti 2006).
Sono gli autori riconducibili al filone padano-emiliano che raggruppa appunto Cornia, Livi, Nori, Benati (ma al quale non si possono dire estranei, se non altro per il sapore del loro umorismo, scrittori come il cremonese Andrea Cisi col suo La piena, minimum fax 2017). Filone il cui atto fondativo è stata l’apparizione della rivista Il Semplice, negli anni Novanta, mentori Gianni Celati e Ermanno Cavazzoni (sullo sfondo, il Tonino Guerra e il Federico Fellini di Amarcord).
Ad accomunarli, e a garantire a noi lettori un piacere che non sapremmo ben definire, è la loro scelta di star vicini al parlato quotidiano, coi suoi dialettismi e regionalismi, con le sue costruzioni sintattiche approssimative, le ripetizioni e le riprese come regola. Uno stile, una lingua, capaci di un’immediatezza che è impossibile scambiare per trascuratezza. Frutto evidente, piuttosto, di una ricerca e di una cura senza le quali l’impressione di semplicità che comunicano non si darebbe. Né si darebbe quel senso di orgogliosa ribellione al già detto – alle frasi fatte e al conformismo delle opinioni, al politicamente corretto e al culturalmente conveniente – che ci coinvolge come una ventata di aria fresca, da respirare a fondo, sorridendo.