Ulrich Beck, La metamorfosi del mondo, Laterza 2017 (pp. 227, euro 16)
Cercar di capire perché non capiamo più il mondo: nel suo ultimo libro Ulrich Beck – morto prima di finirlo, all’inizio del 2015 – invita a smettere di pensare gli avvenimenti attuali attraverso la categoria del cambiamento, nel quale, per radicale che sia, qualcosa resta comunque uguale, e nella discontinuità è possibile rinvenire elementi di continuità.
L’ottica nella quale dobbiamo porci è invece quella della metamorfosi: “una trasformazione molto più radicale, in cui le vecchie certezze della società moderna vengono meno e nasce qualcosa di totalmente nuovo”. Allo stesso modo, dobbiamo riconoscere che al programma “idealista” del cosmopolitismo è subentrata una realtà, quella della cosmopolitizzazione, in cui anche chi vive nel più completo isolamento è coinvolto in dinamiche globali.
Al di là dei discorsi di metodo, Beck non esita – a tratti con un piglio consapevolmente spiazzante, se non provocatorio – a sostenere che nel cambiamento climatico, l’esempio più lampante della metamorfosi in corso, non possiamo attardarci a vedere solo la possibilità di un esito catastrofico: dobbiamo saper vedere anche possibili, positivi “nuovi inizi”, riassumibili nella dilagante – secondo l’autore – presa di coscienza che dalla Dichiarazione di indipendenza è ormai tempo di passare a una Dichiarazione di interdipendenza. Lo stesso capitalismo, di per sé “suicida”, conosce inediti momenti di “riflessività”, che si esprimono nell’apertura a orizzonti di più lungo periodo sia in uomini d’affari che in economisti ortodossi, finora attestati sulla linea di una indefettibile – non importa quanto ideologica – fede nel progresso.
Ma attenzione: questa crescente presa di coscienza è essa stessa un aspetto della metamorfosi e ne condivide dunque la natura: non realizzazione di un programma etico e politico ma accadimento, dato di fatto in evoluzione rapidissima, frutto non di una solidarietà globale ma di una sorta di “cosmopolitismo egoista”.
E’ inevitabile, per il lettore, avvertire in certe pagine un implicito richiamo a interpretazioni che di nuovo hanno ben poco: l’hegeliana “astuzia della ragione”, o un’indefinita “mano invisibile” (della metamorfosi?), sembrano minare l’appello al rinnovamento della nostra mentalità e dei nostri strumenti di analisi della realtà. Senonché l’autore sembra consapevole di questa possibile deriva, ma è con Ernst Bloch e il suo “principio speranza” che ammette se mai un'”affinità”, soprattutto quando sottolinea i pericoli che anche il pensiero critico corre, non riuscendo a riconoscere la portata della metamorfosi in corso e restando perciò, suo malgrado, prigioniero dello stesso presentismo contro cui argomenta, cedendo di fatto alla colonizzazione del futuroda parte del presente che caratterizza la società attuale.
E’ qui che Beck risulta stimolante, se non convincente: nel mettere in luce l’angustia del pessimismo precisando però che “la negazione del pessimismo non implica l’ottimismo”, e ribadendo che riconoscere la possibilità di effetti collaterali positivi di fenomeni in sé negativi – cambiamento climatico in primis – non significa escludere la possibilità della catastrofe, ma neanche quella che la crisi ambientale metta alle corde il neoliberismo, la guerra, l’irresponsabilità della politica internazionale.
Questo è in definitiva il senso profondo della riflessione di Beck, e il suo lascito, è il caso di dire: occorre lasciarsi alle spalle l’idea che ciò che non sappiamo sia una lacuna che, per quanto vasta, primo o poi si colmerà, per pensare invece che c’è molto che neanche sappiamo di non sapere. A partire dagli esiti della metamorfosi che sta accadendo, appunto.