Alberto Schiavone, Ogni spazio felice, Guanda 2017 (pp. 239, euro 16)
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”.
“Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
Sembrano impersonare i due modi descritti da Italo Calvino per far fronte al dolore e alla disperazione, i protagonisti di questo romanzo.
Ada non solo è caduta nell’alcolismo, nella sciatteria, fino all’abbrutimento che non lascia più intravedere la dignitosa insegnante che è stata, ma si è anche lasciata alle spalle le buone maniere e il politicamente corretto: dà della testa di cazzo a molti e manda affanculo tutti, estranea al mondo, irreparabilmente distante dagli altri. Amedeo no, anche da pensionato è rimasto l’“omino leggero” che è sempre stato, uno di quegli uomini che temono il giudizio degli altri: ha “paura di tutto” e non è “sicuro di niente”. Eppure, vive la propria infelicità “con parsimonia”, e non si chiude al mondo: si guarda attorno e da quel che vede e ascolta ricava raccontini, che non scrive, ma narra a se stesso, mentalmente. E così passa dieci, dodici minuti. Non devono durare di più, non farebbero per lui. Non si sottrae alla miseria e al degrado domestici, ma sa distinguere “ogni spazio felice”, per esempio quello in cui si svolge l’esistenza degli animali, che “vivono nel presente” e “non conoscono il rancore, il ricatto, l’impotenza”, che sono invece esperienza d’ogni giorno per lui. Complice, di fatto, dell’abiezione della moglie, che a malincuore provvede a rifornire quotidianamente di bottiglie e sigarette e s’accontenta di disapprovare sommessamente, di riprendere con cautela. Una complicità, la loro, nata da un comune dolore, la disgrazia che s’è portata via uno dei due figli adottati, il maschio, e ha annientato lei mentre lui è riuscito ad affrontarla, avendo a fianco la figlia, Sonia: “Spettatori storditi. Poi famigliari attenti. Delusi. Arrabbiati. (…) Amedeo e Sonia soli davanti a un fallimento. Di loro tutti. E allora l’impegno di esserci, stare lì, resistere alla tentazione di scappare e lasciare tutto. L’alcol di Ada è il loro stesso fiume. Ci sono immersi…”.
Sullo sfondo, la Storia: la marcia dei quarantamila della Fiat a Torino, dove “con grande anticipo finiva il Novecento”, senza che ci si potesse render conto della portata dell’evento, “perché l’impegno di vivere non permette di capire”. E neanche i privilegiati, del resto, sono consapevoli del fatto che quello in cui vivono “è un mondo sempre più uguale, in cui la parte ricca, colta, prova ad arroccarsi laddove ancora si riconosce e non si mischia con i barbari o gli esclusi”, ma “non capisce che verrà rasa al suolo”.
Una storia triste in un mondo triste, dunque. Che se troverà un motivo di riscatto lo troverà nella pietas di Amedeo, nel suo desiderio di risollevare la moglie dalla rovina che persegue con determinazione, di aiutare la figlia nelle sue improbabili e sofferte esperienze sentimentali. E’ la lingua asciutta, il periodare limpido dell’autore, la costruzione nitida in cui si dispongono gli avvenimenti in sequenze di fotogrammi, a impedire che arriviamo in fondo senza mai avvertire il sapore sgradevole del patetismo. Ma lo dobbiamo anche a lui, ad Amedeo, con il suo antieroico arrabattarsi, la sua sostanziale pulizia morale, la capacità di conservare un nativo spirito di umana curiosità, e di comprensione intelligente: più lo si segue e più si ha l’impressione che la sua richiami un’altra figura, e – pur nella diversità d’ambienti in cui le vicende sono calate e nella differenza di cultura che connota i due personaggi – è quella di Stoner, il protagonista dell’omonimo fortunato romanzo di John Williams, cui alla fine ci sentiamo di accostarla.