Elias Canetti, Il libro contro la morte, Adelphi 2017 (pp. 393, euro 18)
“Riuscirò a scrivere il libro sulla morte solo avendo l’assoluta certezza che non sarò io a darlo alle stampe nel tempo di vivere che ancora mi resta”.
Elias Canetti, ottantaduenne, si è persuaso che il libro della sua vita, quello cui ha lavorato per più di quarant’anni, resterà incompiuto.
Anzi: allo stato di appunti, pensieri, aforismi, il genere in cui – come ammette lui stesso – ha “perseverato con coerenza per cinquant’anni, e questo proprio per via della loro incoerenza”. Il che non toglie che quelli che ha raccolto e ancora sta raccogliendo attorno al tema della morte formino un libro, “così da poter essere in seguito pubblicato”. In seguito, perché “solo in questo modo posso essere davvero sicuro che mi pronuncerò sempre con sincerità, senza riguardo per i vivi”. “Voglio dire quello che penso”, questo il proposito che percorre queste pagine, immutabile negli anni, e che trova il suo fulcro nell’atteggiamento richiamato sin dal titolo. Quello di Canetti non è un libro sulla ma contro la morte: “Sarebbe giusto chiudere gli occhi davanti alla morte? No, tre volte no! tenerli spalancati gli occhi, e maledirla, e ancora maledirla. E non cercare di rabbonirla mettendo limiti al rifiuto nei suoi confronti”. Vengono in mente, per contrasto, alcuni autori, i cui libri sono apparsi in questi ultimi mesi, che appunto tentano invece di venire a patti con la questione: da Yalom (Fissando il sole, Neri pozza) a Boncinelli (Io e lei, Guanda) a Maggi (L’ultima beatitudine, Garzanti), ricorrendo alla saggezza epicurea il primo, alle certezze disincantate della scienza il secondo, a quelle della fede il terzo. E Canetti ne ha per tutti, verrebbe da dire, perché i suoi pensieri sono anche una rassegna delle posizioni ritenute da lui illusorie, o inaccettabili addirittura: non basta pensare che intanto che viviamo la morte non c’è e quando arriverà noi non ci saremo, perché la morte è “un’ultima angustia orribilmente penosa, liberarsi dalla quale non è cosa che dipenda da noi”, tant’è vero che “teniamo conto della morte anche quando non la stiamo aspettando”.
D’altra parte, “la biologia sa definire la morte altrettanto poco quanto sa definire la vita e la peculiarità dell’essere umano”, e la fede serve solo ai credenti per facilitarsi la vita, “immaginando di rivedersi, mentre questo non sarà loro mai concesso!”
Non è solo contro la propria morte che Canetti combatte, ma contro la Morte, in generale – la sua lunga vita gli ha consentito di confrontarsi con le stragi del secondo conflitto mondiale come con quelle della guerra del Golfo – senza per questo diluire nella riflessione storica il pensiero della propria fine, della fine di uno scrittore che in un libro sulla morte ha individuato il suo compito più significativo: “Puoi fare in modo che ti diventi indifferente quanto accadrà alle tue opere? No, finché continuo a scrivere. Ma un giorno o l’altro potresti finalmente smettere di scrivere, magari quando avrai terminato questo libro? Non posso. Non potrò. Allora non farai mai pace con la morte? Mai.”
Ha 87 anni, Canetti, quando – morirà due anni dopo – ritorna sul proprio progetto e non se ne nasconde l’insensatezza, o peggio: “A poco a poco mi rendo conto che nulla è più volgare, banale, scontato e demagogico della mia battaglia contro la morte. Ho cominciato a vergognarmene, ma ciò nonostante persevero in essa, imperterrito”.
Torna alla mente un altro grande pensatore che della morte si è occupato nel libro che si può considerare riferimento obbligato di ogni riflessione sulla finitudine della vita, quattrocento pagine per sondare, spiegare, ribadire il fatto che la morte non è qualcosa ma è nulla, e non consiste dunque in altro che nel “No dell’indicibile”, che “non domanda di essere compreso o interpretato, e non è fatto nemmeno per suggerirci pensieri reconditi positivi”. Così Vladimir Jankélévitch (La morte, Einaudi 2009).