Francesco Germinario, Un mondo senza storia? La falsa utopia della società della poststoria, Asterios 2017 (pp. 126, euro 16)
“Le commemorazioni legate alla «Giornata della memoria» realizzano il primato della destoricizzazione”: “agli studenti sono proposte riflessioni o ricostruzioni che esulano quasi sempre dallo svolgimento effettivo dei programmi di storia, rendendo difficoltosa la medesima collocazione della Shoah sul piano temporale”.
E i viaggi ad Auschwitz? Nella sostanza, “iniziative vissute dai partecipanti come una gita scolastica”, al massimo “come una declinazione del «turismo della memoria»”. Operazioni che contro la loro volontà finiscono per banalizzare la storia, dunque? No, peggio: “procedure esorcistiche, finalizzate a sterilizzare i contenuti politici degli atteggiamenti xenofobi correnti”.
Parte dalla scuola, e dall’insegnamento – dal non insegnamento – della storia del Novecento che in essa si pratica, questo libro, ma non è un testo esclusivamente per insegnanti, nonostante la sua tempestività e l’innegabile sintonia con i discorsi suscitati dalla proposta di accorciare di un anno le scuole medie superiori: “invece di diminuire i corsi di un anno, si tratta di far entrare un secolo in più nei programmi”, scriveva poche settimane fa Asor Rosa su “La Repubblica”.
Perché questo è il punto: il fatto che il programma di storia che si svolge non contempli, di fatto, il Novecento e, se va bene, tocchi per sommi capi la sua prima metà fermandosi alla seconda guerra mondiale, è la spia – anzi: la causa e l’effetto insieme – di un diffuso e pervasivo atteggiamento culturale, esistenziale, che induce non a un generico pessimismo sui tempi che corrono, ma al riconoscimento che quella ormai in atto è un’“apocalisse antropologica”. Una mutazione che si rivela nella separazione fra Storia e vita: il Tempo è privatizzato, è solo il tempo biografico, quello che si vive (o si immagina di vivere) in prima persona; la vita è depurata della sua storicità, a partire dalla rimozione del limite che la connota: non è fatta di esperienza, ma di consumo, e il consumo si svolge nel Presente, lo pervade, lo impone come unica dimensione della realtà e del pensiero (“unico”, per l’appunto). Il presentismo imperante “ha fagocitato le scansioni temporali Passato-Presente-Futuro; forse a essere entrato in crisi è il concetto medesimo di Tempo” (salvo poi ricevere i contraccolpi di questa riduzione al puro presente – verrebbe da aggiungere – sottoforma di insoddisfazione cronica, di infelicità, di depressione…).
E non è che la memoria – terreno diverso da quello della storia, ma pur sempre rivolto a mantenere un senso del Passato – contrasti davvero la dittatura del Presente, perché “la memoria, per essere attiva, necessita di momenti di socialità forte”, come il partito politico, che è però entrato in una crisi irreversibile negli ultimi decenni (complice lo smantellamento operato con disinvoltura, e fierezza in molti casi… – ndr.). E allora, a chi il compito di impedire che la memoria si privatizzi e la storia diventi “egostoria”? Alla scuola! “L’istituto formativo è rimasto pressoché l’unica agenzia deputata a gestire questa operazione”.
Ecco perché si è partiti dalla scuola: è lì che la scomparsa del pensiero critico – perché non ce n’è se manca la consapevolezza della storicità, e dunque della superabilità, del Presente – ha fatto le sue prove e celebra i suoi fasti.
E gli storici, quelli che per mestiere frequentano il passato, e ci si aspetta ne tengano vivo il senso anche fra coloro che storici non sono? “Tramontati i partiti, quale contenitore di sapere e di memoria storica, ed evaporata la politica, quale potente stimolo alla conoscenza, la ricerca storica è stata costretta a ripiegarsi su stessa, per ritrovare le ragioni e le motivazioni del proprio operare”. Presto dette, per altro: “rispetto alla cultura dominante della poststoria”, lo storico (se non appartiene alla maggioranza degli storici che scrivono per altri storici) è tenuto dal suo stesso “specialismo” a “volgere lo sguardo all’indietro. E, per un curioso paradosso, il principio di speranza non sorge, come nei profeti biblici, dalla constatazione della condizione presente di miseria, ma dalla riflessione sul Passato: è proprio volgendosi all’indietro che lo storico decreta la storicità del Presente”. E’ proprio indagando sul Passato, che può fare il suo dovere: “porre le domande scomode spinose sul Presente.”