Jean-Baptiste Del Amo, Regno animale, Neri Pozza 2017 (pp. 411, euro 18)
Lo si potrebbe descrivere come la saga di una famiglia contadina francese, divisa equamente in due parti. 200 pagine la prima, che tratta degli anni di inizio Novecento, e 200 la seconda, che salta agli anni Ottanta.
Fra una e l’altra la Grande guerra, che arriva a strappare i figli a genitori per i quali “la guerra è un’astrazione, una parola vuota”, “ i tedeschi una razza esotica e barbarica”, “il fronte un territorio misterioso”. Perché la loro vita è tutta lì, nel lavoro della campagna e nell’allevamento dei loro animali.
L’idealizzazione del mondo contadino pare ormai estranea ai non molti romanzi che ancora ne trattano (vedi ad esempio Cuore di bestia di Noëlle Revaz, edito da Keller nel 2013). Ma qui si va oltre, e le immagini che Del Amo ci propone, il suo lessico, aggrediscono il lettore: non a caso la critica l’ha avvicinato a Céline e Houellebecq.
La crudeltà che regola nella più completa indifferenza il rapporto con gli animali è il tema centrale, e non perché sia una novità: anche la porcilaia contadina conosceva la più completa indifferenza nei confronti della sofferenza animale, ma al tempo stesso una vicinanza per cui “nello stesso tempo, nello stesso luogo, uomini e animali nascono, vivacchiano e scompaiono”. Non è così nell’allevamento industriale, dove “i maiali pisciano e cacano tutto il giorno nell’esiguo spazio dei recinti che a malapena permette loro di muoversi, li costringe a evacuare sotto di sé, a calpestare i loro escrementi, sdraiarvisi sopra, rotolarvisi” e “gli uomini combattono contro la merda una lotta che si rinnova quotidianamente”.
Non c’è traccia di pietà in descrizioni simili, anche se non riescono a passare inosservati l’occhio del coniglio che, appena ammazzato, sembra guardare ancora, e il cane che sentendo vicina la fine va a nascondersi e, quando la giovane padrona gli passa accanto senza vederlo, “sente il suo odore e muove la coda, e muore nella sua solitudine e nel suo silenzio di animale mentre i passai della ragazza si allontanano”. Del resto, lo scrittore, intervistato, non esita a dichiarare che gli “atti quotidiani innumerevoli che vengono compiuti nell’ambito dell’allevamento suino sono di una violenza inaudita. La castrazione con l’animale vivo, il taglio dei denti e della coda”. Il fatto è che, per Del Amo, “tra il maiale e l’uomo, in molti casi, c’è davvero poca differenza”: vittime entrambi della barbarie del nostro tempo? Sicuramente, ma anche – sembra emergere – di una cieca volontà di vita: “ovunque, tutto intorno, gli animali fottono e copulano” e “lo sperma stilla, gocciola, cola”, così come, quando arriva la primavera, la linfa comincia “a zampillare dentro gli alberi, a salire pesantemente nei tronchi”. La vita, prima che la storia, sembra alimentare il destino insensato di tutto ciò che nasce, corre verso la propria rovina e muore. E la scrittura registra questa assurda ininterrotta ripetizione, mettendo a dura prova la capacità del lettore non di tollerare il peso della compassione, ma di resistere a un disgusto crescente: è una pedagogia dell’orrore quella che Del Amo si propone? Le sue dichiarazioni – forse più delle sue pagine- autorizzerebbero a crederlo: “questo non è un libro militante che vuole che la gente smetta di mangiare carne. Però, se qualche lettore, una volta finito di leggerlo, smetterà di mangiare il prosciutto, beh, io sarò felice di tutto questo”.