David Bosc, La chiara fontana, L’orma 2017 (pp. 125, euro 13)
Prima di tutto l’ammirazione, l’amore addirittura, per un personaggio: l’aver sentito che la sua esperienza ha a che fare con la propria.
Non se ne può raccontare, altrimenti, se l’ambizione è quella di trasmettere il proprio sentimento a chi legge.
La conoscenza ravvicinata, documentata della sua vicenda, in secondo luogo. Ma non basta. Ne potrebbe uscire una biografia, capace magari di evitare le tentazioni dell’agiografia e le secche della commemorazione, capace di restituire il percorso del personaggio in questione, ma non necessariamente di dire davvero chi è stato, le ragioni della sua irripetibilità.
E allora non è raccontare la sua vita, tutta la sua vita, che occorre, ma avvicinarsi a un periodo cruciale da lui vissuto, quello in cui il suo carattere, le sue paure, le sue speranze han dovuto venire a galla, mostrarsi senza ricorrere alle maschere che le avevano fino allora camuffate.
Sono gli ultimi quattro anno di vita di Gustave Courbet quelli che Bosc sceglie per raccontare il maestro del realismo pittorico e insieme il comunardo in esilio in Svizzera e l’uomo che cerca negli eccessi – siano le donne o l’alcol (che lo ucciderà) – una sorta di coerenza con la sua immagine del Grande Tutto: “Courbet non accettava né la rettitudine né la sottomissione. E in ogni caso rifiutava di farsene portavoce. Aveva visto alcuni aspetti della dismisura, diversi volti dell’incommensurabile. Per lui non aveva alcun senso dire che un animale è pieno di nobiltà, che un albero è maestoso, che la foresta sembra una cattedrale. Paesaggista? Courbet immergeva la faccia nella Natura, gli occhi, le labbra, il naso, le mani, col rischio di perdersi; e soprattutto col rischio di essere abbagliato, rapito, sollevato, liberato da se stesso, strappato al suo isolamento di creatura e proiettato, disperso, incorporato nel Grande Tutto.” E non si trattava del sentimento oceanico, dell’estasi della fusione di sé nel Mondo, perché “dipingendo cadaveri e mezze carogne, Courbet esprimeva l’assurdità della condizione naturale, la brutalità gratuita, la morte e la divorazione.” Né la sua pittura è distacco dalla storia: il suo realismo è “un contrattacco alla fiaba sociale, all’illustre modello di civiltà, alla civilizzazione”, e “lacera le scenografie dietro le quali si svolge il lavoro sporco”, “le allegorie nelle scuole e nelle stazioni, dove si vedono le dee dell’industria e dell’agricolture, gli splendori delle colonie e i prodigi della scienza.”
Coerentemente con questo intento di avvicinarsi dall’interno al personaggio, citando documenti che testimoniano delle sue scelte e degli eventi che lo coinvolgono senza mai farne il perno per la costruzione di una biografia rigorosa, dall’esterno, Bosc adotta un linguaggio che procede per immagini. Una scrittura nella quale riferire di quel che accade a Courbet e proporre le riflessioni che quegli eventi suscitano non sono piani separati. Perché non è una ricostruzione storica quella che leggiamo, ma un romanzo. Un romanzo capace di rendere più di una biografia l’essenza del personaggio di cui si occupa. Proprio perché, a tratti, il narratore, raccontando chi è stato l’altro, implicitamente racconta di chi è lui; dicendo dei tratti che hanno distinto il personaggio, l’artista amato, e che sono poi le ragioni per cui lo ama, finisca col dire di sé, di chi è, o vorrebbe essere.