Roberto Casati, La lezione del freddo, Einaudi 2017 (pp. 177, euro 18)
Che cosa si può imparare dal freddo? o meglio: che cosa si può scoprire, comprendere grazie al freddo?
Se è di freddo vero che si parla, come quello della regione in cui l’autore e la sua famiglia vivono per quasi un anno, e non del “freddo turistico”, del mordi e fuggi di chi pratica sport invernali, allora ci si accorge, standoci, nel gelo, venendoci a patti, che lo si guarda “con un incanto pieno di nostalgia”. È Paolo Cognetti a dirlo, Cognetti lettore di Casati: per entrambi il freddo, il bosco, la neve sono tramite di esperienza. Di esperienza di quel che è essenziale nella vita, in primo luogo: raccogliere, spaccare, accatastare legna si rivelano gesti che moltiplicano la propria adesione al mondo, alla vita vera: in questo libro ci sono anche Lars Mytting e il suo Norwegian wood (v. Appunti per i lettori 2.12.2016). Anche se i luoghi sono diversi: qui siamo nel New Hampshire, fra i boschi di cui scrissero Thoerau e Emerson, boschi tanto fitti che a un italiano non possono non richiamare le terre del Barone rampante: “potremmo andare da qui al Pacifico saltando di ramo in ramo”.
È questo freddo anacronistico, perché riporta ai ricordi dell’infanzia, perché è minacciato dal riscaldamento del clima, che porta con sé un desiderio di essenzialità, e dunque di “poca connessione”: una cartina geografica al posto del GPS, niente notizie dell’ultima ora “costruite per spezzare il filo dell’attenzione e del progetto e dello sguardo lontano.” Basta leggerli una volta alla settimana i giornali, e per il resto scrivere invece: un diario. Un diario che registra i minimi fatti ma si apre a improvvise epifanie: “Mentre cammino nel bosco mi rendo conto che a poco a poco il freddo fa rintanare la coscienza nel fondo del corpo (…). Ma in questo preciso momento in cui scompaio io il mondo irrompe; se io non esisto quasi più, esiste quasi soltanto il mondo. E’ un momento di concentrazione totale e fluida, quasi incontrollata: non devo nemmeno puntare il faro dell’attenzione sugli oggetti intorno a me, le cose e gli eventi chiamano.” Ma attenzione: la retorica della palingenesi è del tutto estranea a Casati. L’irrompere del mondo e il ritrarsi dell’io non gi fanno dimenticare che non si è portato i guanti e le mani si stanno gelando: la vita materiale, quotidiana, resta quella, anzi: si impone, e proprio questo apre a intuizioni e momenti di contemplazione inediti. Meraviglia e autoironia percorrono questa lezione, divertente e insieme capace in certi momenti di realizzare l’aspirazione a “raccontare la stasi e il cambiamento impercettibile.” O a mutare, magari riflettendo sulla casa di legno in cui si è capitati a vivere, modi di vedere che si potevano credere inattaccabili: “pensiamo sempre che costruire per il futuro vada di pari passo con il lasciare tracce solide del nostro passaggio, e invece potrebbe essere una buona cosa fare esattamente il contrario: fai spazio al futuro, cancellati. Non ingombrarlo con eredità materiali” e dunque, perché no?, “progettare delle case a orologeria.”