Eshkol Nevo, Tre piani, Neri Pozza 2017 (pp. 255, euro 17)
Tre piani, tre racconti. Uno per ciascuna delle famiglie che abitano la palazzina. Ma Perec e il condominio del suo La vita, istruzioni per l’uso non c’entra.
Niente giochi combinatori qui, ma tre storie che si tengono fra loro. Grazie innanzitutto al fatto che il loro protagonista le racconta a un tu di cui non sentiamo la voce, perché i suoi interventi vengono tralasciati, o perché è il destinatario di una lettera che non avrà risposta, o perché è morto e la moglie gli si rivolge attraverso una segreteria telefonica che sa bene resterà per forza di cose inascoltata. Sta di fatto che – un po’ questo espediente, un po’ la lingua di tutti i giorni cui lo scrittore si attiene – chi legge si lascia prendere e passa di racconto in racconto ritrovando, in vicende diverse, il contesto e il tema che stanno a cuore all’autore: il primo è quello della famiglia, del rapporto fra padre e figli; il secondo è rappresentato dal non detto che è presente in tutte le relazioni. Padri che non sono o si sospettano inadeguati, o incapaci di entrare in rapporto col figlio; segreti che resistono per decenni in un mondo, come il nostro, nel quale “non esistono più segreti” e “tutto è scoperto, fotografato, condiviso, tutto trapela, passa, è su Facebook, tutto è sbandierato, spudorato, niente più è misterioso al tuo moroso”. Ma non solo le ombre che hanno segnato la vita delle famiglie compaiono in questi racconti. Ce ne sono anche nell’intimo di ciascuno, ed è quando il personaggio se ne accorge che il racconto prende quota: quando l’inquilino del primo piano si trova a dover ammettere che anche lui, come tutti, cova dentro di sé un “piccolo criminale”, o l’inquilina del secondo sente sbriciolarsi “la fiducia nel fatto che un se stessi esiste, che esiste qualcosa di stabile in mezzo a tutto questo casino dell’essere una persona”, mentre la vedova del terzo non ha remore nel riconoscere che “il più grande segreto che possiamo nascondere al mondo” altro non è che quello della “nostra vulnerabilità”. E non si tratta né di giudicare né di essere giudicati, perché – occorre ammetterlo, ed esserne consapevoli – “la nostra anima non procede in avanti, solo in cerchi. E ci condanna a cadere e ricadere nelle stesse buche”.
Non c’è che un rimedio, allora: raccontare, raccontare tutto a qualcuno di cui ci si può fidare perché sai che ti vuole bene e ti prende per quello che sei: “se non c’è nessuno ad ascoltare, allora non c’è nemmeno la storia”. “L’importante è parlare con qualcuno. Altrimenti, tutti soli non sappiamo nemmeno a che piano ci troviamo, siamo condannati a brancolare disperati nel buio, nell’atrio, in cerca del pulsante della luce.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora