Dal Corriere della Sera (Brescia) del 10 gennaio 2018
«Io, bambino, accolto nel gruppo dei suonatori. Io, piccolo, in mezzo a loro, avvolto nel suono del bassetto, delle chitarre e dei violini. Ero troppo piccolo per suonare, e sentivo di essere privilegiato rispetto gli altri bambini nel poter stare lì, ai piedi di mio papà che suonava. Il violino».
Nel primo ricordo che Daniele Richiedei ha del Carnevale del suo paese, Bagolino, a occupare la scena è la musica, l’esperienza dell’essere immersi nella musica: un po’ come accade a chi, come lui oggi, suona in complessi musicali e in orchestre.
Certo, il violino di suo padre era lì, in casa, per il resto dell’anno, ma non è su quello che lui proverà a mettere le mani: è un violino piccolo, adatto a un bambino di sei anni, quello sui cui inizierà a studiare alla scuola di musica giù a Storo.
Avrebbe potuto diventare un sonadùr, come altri sui coetanei di Bagolino, e il violino prenderlo in mano, ogni anno, solo qualche settimana prima del Carnevale. Invece, liceale diciassettenne, decide di far sul serio, va al conservatorio.
L’esperienza accumulata gli risparmia qualche anno: a ventitré è diplomato. Oggi, a trentatré, è secondo violino dell’Ensemble del Teatro Grande, ma gli accade spesso di esser chiamato a suonare anche nell’orchestra del Festival pianistico e in altre compagini prestigiose. La musica classica però non è tutto: ci sono anche il pop e il rock, il jazz e l’improvvisazione. Perché la musica bagossa non si è mai ridotta a preistoria della sua vocazione. Non solo per il fatto che ogni anno è là, sonadùr fra i sonadùr ad accompagnare le danze dei balarì, ma anche perché senza quella non ci sarebbero state probabilmente la curiosità di sperimentare, la versatilità come dimensione connaturata del far musica. E, coerentemente, sarebbe forse diversa l’immagine che Daniele ha del proprio futuro, non coincidente con il posto sicuro, in un’orchestra stabile, ma con il perseverare nel mettersi alla prova su piani diversi di espressione musicale, perché, in fondo, la musica è una. Non c’è musica colta o incolta, classica o popolare.
C’è musica cattiva e buona se mai, ma soprattutto c’è musica ridotta a prodotto da consumare e musica che vive del respiro lungo di una socialità che non si è lasciata omologare nei riti di massa, e resiste, non in forza di un arroccamento geloso ma del senso che una comunità continua ad attribuirle. Non troverete sonadùr, balarì e màscher alle feste del vino e agli shopping day dei centri commerciali: il Carnevale di Bagolino è conosciuto in tutta Europa perché generazione dopo generazione (sì, ci sono anche «nativi digitali» fra le figure che lo animano) continua a vivere. Se chiedete a Nerio – il padre di Daniele, animatore della Casa museo di Bagolino – perché fra gli oggetti raccolti ed esposti sono pochi quelli attinenti al Carnevale vi risponderà che non potrebbe essere diversamente, «perché la festa è ancora viva, e i suoi segni non sono ancora oggetti da museo». Viva, e capace di stimolare sempre nuove ricerche sul suo passato e i suoi significati – ultima quella, tuttora in corso, che confluirà in un libro che proprio Daniele sta curando – ma anche di produrre esperienze e raccontare storie. Come quella del sonadùr il cui figlio divenne concertista.