Trascrizione dell’intervento pronunciato nel corso della XVI edizione di Dies fasti, giornate organizzate dagli studenti del Liceo Calini di Brescia il 15 e 16 novembre 2017. Tema prescelto quest’anno, “Il domani”.
Mi trovo a parlare di domani a chi ha cinquant’anni meno di me, e immagino che cinquant’anni vi sembrino un periodo lunghissimo: un’epoca storica più che un arco di vita. Si tratta in effetti di un intervallo di tempo in cui sono successe molte cose, il mondo è cambiato, e sta cambiando (in modo ancor più radicale, probabilmente, di come è avvenuto nella prima e nella seconda rivoluzione industriale).
Non è facile pensare che cinquant’anni siano un’entità temporale che possa riguardare se stessi, se si ha meno di vent’anni. Eppure, posso dire che non è molto diverso neanche per me che ne ho quasi settanta: anche a me pare irreale che sia passato mezzo secolo da quando avevo la vostra età (e anche da quando, di poco superati i vent’anni, da precario, per un paio d’anni ho insegnato in questa scuola storia e filosofia.
Quindi, sentiamo nello stesso modo il tempo trascorso? Sì, se parliamo del senso del Tempo, del Tempo che è passato e continua a passare, del mistero che il Tempo continua a rappresentare (mentre i fisici dicono che il tempo non esiste, i neurobiologi che invece è una realtà, e alcuni filosofi sostengono che il divenire è un’illusione, perniciosa oltre tutto, anche se ). Ma non dobbiamo ignorare il fatto che il tempo non è lo stesso per chi vive stagioni diverse della vita: per la giovinezza col tempo si deve fare i conti solo in certe occasioni (un lutto, o il rimpianto di un amore finito), ma poi lo si di dimentica: perché la giovinezza appare una condizione naturale, non ha bisogno di spiegazioni, di essere compresa. La vecchiaia invece è innaturale, e risulta incomprensibile: la propria, non quella degli altri, non la vecchiaia in generale: è alla propria che si fa fatica a credere, così come appare incomprensibile la velocità crescente con cui il tempo passa e le stesse cose, gli stessi gesti, le stesse parole si ripresentano.
Ancor più diverso è il modo in cui sentiamo il futuro, il domani.
Ma allora che cosa mi autorizza a parlare di domani a dei giovani? La letteratura, credo di poter rispondere. O meglio: il racconto, l’arte di raccontare, che permette di vivere esperienze che non sono nostre come se lo fossero, di trasmettere esperienze fra persone appartenenti a culture diverse, ad epoche diverse, e, appunto, a età della vita diverse.
E con questo arrivo a parlare di un racconto in particolare, di un romanzo che credo tutti voi abbiate letto: il Barone Rampante, di Italo Calvino (pubblicato sessant’anni fa, ma sono duecentocinquanta- come me fanno notare in questi giorni diverse iniziative in alcune università italiane – quelli che ci separano dal momento in cui la storia prende avvio). Di quello ci occuperemo, e di un altro racconto che ne è un possibile seguito: perché l’ho scritto? Perché amo Calvino, e lo amo perché non è solo un bravo scrittore ma uno scrittore che offre qualcosa di utile per la vita e non smette di offrirlo. Lui diceva che gli autori che funzionano così sono i classici: credo parlasse, senza averne l’intenzione, anche di se stesso, di quello che sarebbe diventato.
Il barone rampante (come altre cose di Calvino) non si leggono una volta sola: se non lo si è detestato in quanto lettura obbligatoria a scuola (può capitare), si torna a leggerlo in diversi momenti della vita, e ci si trova qualcosa di nuovo, non tanto perché non lo si era capito alle letture precedenti ma perché nel frattempo siamo cambiati noi che lo leggiamo.
Amare un scrittore significa innanzitutto rileggerlo, e poi leggere quello che di lui hanno detto altri, ma anche scriverne: può succedere, senza bisogno di essere scrittori di professione. Si possono scrivere le ragioni per cui lo si ama, oppure immaginare di proseguire un suo racconto.
Torniamo all’inizio del romanzo di Calvino.
Fu il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come fosse oggi. Eravamo nella sala da pranzo della nostra villa d’Ombrosa, le finestre inquadravano i folti rami del grande elce del parco. Era mezzogiorno (…) Tirava vento dal mare, ricordo, e si muovevano le foglie. Cosimo disse: – Ho detto che non voglio e non voglio! – e respinse il piatto di lumache. Mai s’era vista disubbidienza più grave.
(…) Cosimo non volle toccare neanche un guscio. – Mangiate o subito vi rinchiudiamo nello stanzino! – Io cedetti, e cominciai a trangugiare quei molluschi. (Fu un po’ una viltà, da parte mia – dice Biagio, il fratello minore, il narratore – e fece sì che mio fratello si sentisse più solo, cosicché nel suo lasciarci c’era anche una protesta contro di me, che l’avevo deluso; ma avevo solo otto anni, e poi a che vale paragonare la mia forza di volontà, anzi, quella che potevo avere da bambino, con l’ostinazione sovrumana che contrassegnò la vita di mio fratello?)
– E allora? – disse nostro padre a Cosimo.
– No, e poi no! – fece Cosimo, e respinse il piatto.
– Via da questa tavola!
Ma già Cosimo aveva voltato le spalle a tutti noi e stava uscendo dalla sala.
– Dove vai?
Lo vedevamo dalla porta a vetri mentre nel vestibolo prendeva il suo tricorno e il suo spadino.
– Lo so io! – Corse in giardino.
Di lì a poco, dalle finestre, lo vedemmo che s’arrampicava su per l’elce. (…) saliva per il nodoso albero, muovendo braccia e gambe per i rami con la sicurezza e la rapidità che gli venivano dalla lunga pratica (…).
Cosimo salì fino alla forcella d’un grosso ramo dove poteva stare comodo, e si sedette lì, a gambe penzoloni, a braccia incrociate con le mani sotto le ascelle, la testa insaccata nelle spalle, il tricorno calcato sulla fronte. Nostro padre si sporse dal davanzale. – Quando sarai stanco di star lì cambierai idea! – gli gridò.
– Non cambierò mai idea, – fece mio fratello, dal ramo.
– Ti farò vedere io, appena scendi!
– E io non scenderò più! – E mantenne la parola.
Sappiamo cosa verrà dopo: una vita inimitabile, piena di interessi, avventure, partecipazione a fatti storici, innamoramenti e amori
Quello che dobbiamo chiederci è: lo sapeva, Cosimo, che la sua scelta, improvvisa, non premeditata, gli avrebbe regalato una vita del genere? Io credo di no: non è stato quello che voleva a portarlo alla sua scelta ribelle, ma quello che non voleva. Ma attenzione: il rifiuto delle lumache è in realtà il rifiuto di obbedire a un ordine che gli appare ingiustificato e che capisce neanche il padre saprebbe giustificare: è il rifiuto di un’autorità non autorevole. “Avevo otto anni – dice Biagio – tutto mi pareva un gioco, la guerra di noi ragazzi contro i grandi era la solita di tutti i ragazzi, non capivo che l’ostinazione che ci metteva mio fratello celava qualcosa di più fondo.”
Può dunque capitare che solo avendo il coraggio di dire no a ciò che non si vuole si metta a fuoco poco a poco quel che si vuole: Cosimo rifiuterà tutte le autorità non autorevoli, rifiuterà e lotterà contro la società autoritaria del suo tempo.
Rifiutando un oggi che ci sembra sbagliato, ingiusto, inaccettabile, si può intravedere – anche se all’inizio indistintamente – un domani; sottraendosi all’obbligo che ci viene imposto dall’esterno o che noi stessi, per conformismo, ci imponiamo, possiamo tracciare le coordinate di una vita diversa, della vita che vogliamo. Si tratta di fare un salto. Metaforico, o reale come quello di Cosimo: un salto, una rottura che è in primo luogo una rottura con se stessi, un fare i conti con la paura di perdere la tranquillità, l’amore degli altri che ci stanno vicino magari: occorre rinunciare a qualcosa, a qualcuno. Non solo: occorre rinunciare anche a una parte di sé: occorre, se vogliamo estremizzare, morire a se stessi per rinascere. Ma facciamo attenzione: morire e rinascere sono metafore. Il Cosimo che vivrà l’intera vita sugli alberi è pur sempre il Cosimo che ci era salito quel giorno: è da quell’oggi che è nato il suo domani.
Dunque: il domandi stava nell’oggi, era a portata di mano ma avrebbe potuto anche essere per sempre ignorato.
Possiamo allora trarre una prima conclusione: il domani sta nell’oggi: ogni scelta, ogni progetto, ogni sogno non viene dopo, non viene da fuori: è adesso, ed è dentro di noi.
Dunque è l’attimo fuggente che occorre saper cogliere? O addirittura: dobbiamo affidarci ai desideri del momento: fare scelte di quelle che chiamiamo “colpi di testa” (o “passaggi all’atto” come dicono gli psicologi)?
No: ogni scelta di rottura, se davvero è di rottura, se dopo di essa le cose non sono destinate a tornare come prima, è resa possibile quando e solo se è matura: un frutto si stacca dal ramo all’improvviso, è vero, ma solo dopo che il sole l’ha lentamente portato a maturazione. Cosimo fa quel gesto inaspettato – inaspettato per lui stesso – perché da tempo ha maturato una posizione critica nei confronti dell’ipocrisia e del potere dispotico degli adulti.
Il domani sta nell’oggi, dunque, se l’oggi si inscrive in una vita davvero vissuta, com’è quella di chi vive con attenzione, serietà, passione quello che la vita gli offre e ne sa ricavare esperienza: occorre una base solida su cui poggiare i piedi se vuoi spiccare un balzo.
Proseguiamo, passando dall’inizio alla fine del racconto.
Un mattino (…) non lo vedemmo, alzammo lo sguardo, intimoriti: era salito in cima all’albero e se ne stava a cavalcioni d’un ramo altissimo, con indosso solo una camicia.
– Che fai lassù?
Non rispose. Era mezzo rigido. Sembrava stesse là in cima per miracolo. Preparammo un gran lenzuolo di quelli per raccogliere le olive, e ci mettemmo in una ventina a tenerlo teso, perché ci s’aspettava che cascasse. (…)
[passato un bel po’ di tempo] Gli uomini che tenevano il lenzuolo erano stanchi. Cosimo stava lassù e non si muoveva. Si levò il vento, era libeccio, la vetta dell’albero ondeggia va, noi stavamo pronti. In quella in cielo apparve una mongolfiera. Certi aeronauti inglesi facevano esperienze di volo in mongolfiera sulla costa. Era un bel pallone, con appesa una navicella di vimini: e dentro due ufficiali guardavano col cannocchiale il paesaggio sottostante. Puntarono i cannocchiali sulla piazza, osservando l’uomo sull’albero, il lenzuolo teso, la folla, aspetti strani del mondo. Anche Cosimo aveva alzato il capo, e guardava attento il pallone.
Quand’ecco la mongolfiera fu presa da una girata di libeccio; cominciò a correre nel vento vorticando come una trottola, e andava verso il mare. Gli aeronauti, senza perdersi d’animo, s’adoperavano a ridurre – credo – la pressione del pallone e nello stesso tempo srotolarono giù l’ancora per cercare d’afferrarsi a qualche appiglio.
L’ancora volava argentea nel cielo appesa a una lunga fune, e seguendo obliqua la corsa del pallone ora passava sopra la piazza, ed era pressapoco all’altezza della cima del noce, tanto che temevamo colpisse Cosimo. Ma non potevamo supporre quello che dopo un attimo avrebbero visto i nostri occhi.
L’agonizzante Cosimo, nel momento in cui la fune dell’ancora gli passò vicino, spiccò un balzo di quelli che gli erano consueti nella sua gioventù, s’aggrappò alla corda, coi piedi sull’ancora e il corpo raggomitolato, e così lo vedemmo volar via, trascinato nel vento, frenando appena la corsa del pallone, e sparire verso il mare…
La mongolfiera, attraversato il golfo, riuscì ad atterrare poi sull’altra riva. Appesa alla corda c’era solo l’ancora. Gli aeronauti, troppo affannati a cercar di tenere una rotta, non s’erano accorti di nulla.
Si suppose che il vecchio morente fosse sparito mentre volava in mezzo al golfo.
Così scomparve Cosimo, e non ci diede neppure la soddisfazione di vederlo tornare sulla terra da morto.
Un altro salto, dunque: non dalla terra agli alberi stavolta, ma dagli alberi all’ancora di una mongolfiera: il Barone si era scelto la vita che voleva fare e adesso si sceglie la propria morte.
È qui che si innesta il mio racconto: è proprio andata come racconta Calvino? Oppure…
Erano passati due anni – racconta Biagio – da che si era visto Cosimo perdersi nel cielo, quando due ufficiali di marina gli si presentano: dalle loro parole lui ricostruisce ciò che era avvenuto a Cosimo una volta balzato sull’ancora della mongolfiera.
Dovette Cosimo avvertire che le forze che gli avevano permesso d’abbrancare quell’ancora e tenercisi avvinghiato lo stavano abbandonando: le mani stavano perdendo la presa che avevano stretto attorno alla corda, il ferro dell’ancora gli segava la pianta dei piedi, e i muscoli, raggomitolato com’era, si stavano irrigidendo.
Il disagio stava mutando in spasmi e fitte, tali da generare in lui una completa indifferenza alla veduta marina che l’avvolgeva.
S’era intanto ritrovato dentro un vapore lattiginoso e umidiccio che gli toglieva la vista del mare come del cielo ma gli aveva ad un punto permesso di vedere spuntar in quella bambagia ciò che mai si sarebbe aspettato: la cima d’un albero. Ed era stato allora il suo corpo dolente, non la ragione, a prender la decisione: dall’ancora era balzato a quel pinnacolo, e le sue dita l’avevano pur stretto per qualche istante
Ma: era l’albero di trinchetto quello che si era offerto alla sua presa, un albero privo della coffa che forse avrebbe potuto trattenere il corpo che l’avesse fortunosamente raggiunta.
Ebbi di nuovo l’impressione di esser lì, testimone oculare di quel volo privo di appigli: Cosimo cadeva, tanto leggero da non scendere a perpendicolo ma lievemente oscillando nel vento, come una foglia d’autunno, o come uno degli uccelli che per una vita gli erano stati compagni e lui, pur a lungo cacciatore, aveva sempre amato, e teneramente invidiato.
Lo strido d’una rondine: l’uccello sta volando accanto a lui, e lo osserva, curioso, amichevole. E ricambia lo sguardo, Cosimo: contempla l’uccello che gli è compagno nel volo mentre vede attorno a sé un trascorrere rapidissimo di rami e fronde, quali ai suoi occhi appaiono le sartie e le vele della nave. Nelle quali grazie a Dio ebbe a impigliarsi e, strascicando in qualche modo verso il basso senza più distinguer nulla, poté rallentare la sua corsa.
Che si concluse, infine.
Un rumore sordo, come di sacco gettato su di un assito.
E di colpo, il buio
Adesso Cosimo è dunque davvero morto, e il racconto è già finito? No.
“Kunt’a alquatrus tayir bahriun kabir?”
La voce che gli par di sentire pronuncia parole che non sa intendere (…) ma insiste quella voce, e lasciando il tono della domanda per assumere quello della constatazione, cambia anche di lingua: sei un albatro, gli dice…
È un arabo il moro dal volto rugoso che gli sta porgendo una tazza fumante.
Sì, è stato Bilal ad assistere per giorni il Barone vostro fratello – ha ripreso a dire il capitano Davies – e a strapparlo alla morte prendendolo per i capelli, come si dice.
Bilal, un moro? ho chiesto io: un moro su una nave di Sua Maestà il Sovrano del Regno Unito?
Un bravo marinaio, da molti anni collocato nei ranghi più bassi della nostra marina mercantile. Ripescato ancora ragazzo nel Mar di Sicilia da una nostra nave e da allora membro degli equipaggi dei velieri di Sua Maestà. Tutti avevano creduto morto vostro fratello, inanime e come accartocciato sul ponte della Seaflower. Tutti ma non lui, Bilal, forte della sua convinzione che quello che era piombato fin lì fosse un albatro…, un albatro che si era reincarnato in un uomo: cercava di persuadere gli altri, Bilal: come avrebbe potuto cadere dal cielo se no? Nessuno sapeva trovare una risposta
Dissipato il timore superstizioso che l’albatro porti disgrazie ai marinai essendo la reincarnazione di marinai morti, Cosimo, assistito da Bilal e guardato con simpatia dal resto dell’equipaggio, passa giorni sereni, osservando i marinai andare e venire.
Lui che a lungo aveva tratto soddisfazione, e motivo di riflessione, dall’osservare il lavoro degli uomini poté, a bordo della Seaflower, dar ancora sfogo a questa sua attitudine. Con una differenza però: era dall’alto che lui aveva sempre portato il suo sguardo su chi lavorava, e mai si era trovato alla medesima altezza. Sulla nave, invece, la linea del ponte era la stessa per tutti, anche per lui, e anzi: accoccolato com’era tra i suoi cuscini, i suoi occhi dovevano guardare un poco di sotto in su gli uomini che gli scorrevano davanti. Per non dire poi di quelli che lo sovrastavano dalle traverse degli alberi e dalle innumerevoli vie tracciate da sartie stralli poppiere e paterazzi, vale a dire da tutti quanti i cordami che guarnivano come festoni il cielo del veliero.
Di quassù tutti mi appaiono piccoli, l’avevo sentito una volta osservare: ebbene, una simile constatazione non poteva ora trovare motivo. La statura degli altri era quella stessa che anche lui aveva, né più né meno. E questo mai era avvenuto nei decenni che avevano preceduto il suo abbandono del suolo ove tutti poggiavamo i piedi. Ma occorre anche non dimenticare che guardare comporta l’esser guardati, e guardar dall’alto, trovandosi in una posizione superiore, ha corrispettivo nell’esser guardati dal basso, da chi ne occupa una inferiore, e la disparità di tali reciproche collocazioni non stenta a farsi immagine d’un maggiore e minor valore. Sì che, lo si voglia o no, è pur sempre il riconoscimento d’una propria eccellenza che sottintende lo sguardo di chi sta sopra, o quanto meno d’una propria diversità. Ma ecco: ora Cosimo si trovava alla stessa altezza degli altri, e non degli altri che siamo usi figurarci, spettatori appassionati delle nostra gesta, ascoltatori attenti delle nostre parole. No: gli altri in carne ed ossa che ci è dato di incontrare davvero, nella prossimità dei quali ci si trova, volenti o nolenti, a vivere.
Con questo, si badi tuttavia, non intendo dire che l’animo di mio fratello sia mai stato preda di un altero senso d’una propria preminenza.
Lui anzi nutrì sempre – com’ebbi a scrivere – un interesse genuino peri suoi simili, e una vera passione per la vita associata, la quale – è da dire – sempre si conciliò con la sua perpetua fuga dal consorzio civile (…): un solitario che non sfuggiva la gente, così mi sentirei di definirlo.
E non mutò il suo carattere quando venne a trovarsi su una nave, dove anzi poté trovar conferma d’un principio che già nella sua mente aveva formulato: uomini che vivendo per proprio conto sarebbero meschini e inaffidabili, rivelano invece le loro doti migliori se si associano per affrontare un problema comune, come appunto il governo d’un veliero, che richiede sì la fermezza del comando, ma dove il comandare è anche e sempre persuadere i sottoposti, i quali altrimenti potrebbero far mostra di accettare gli ordini ma al momento buono non eseguirli o farlo con negligenza.
Non erano comunque un’ingenua fiducia negli uomini o il generoso ottimismo di certi spiriti illuminati quelli che nutrivano in Cosimo la speranza nei propri simili, essendo ben consapevole, lui, che la virtuosa associazione degli uomini non dura che il tempo nel quale sono accomunati dal dover fare fronte a un problema che tutti li coinvolge, scioltosi il quale tornano a macerare nel loro egoismo. E allora è assai preferibile non far parte del loro consorzio ma risolversi a viver soli.
Cosimo poté tuttavia godere, partecipandovi a suo modo, dell’esercizio della solidale cooperazione degli uomini coi quali s’era trovato a vivere i suoi ultimi giorni senza doverli vedere, una volta giunti in porto, tornare a tenersi quali estranei, se non concorrenti e nemici.
Avvenne infatti – fu ancora il dottore a darmene conto – che in un tardo pomeriggio mio fratello si addormentò, senza che al momento nessuno gli badasse, neanche Bilal che era andato alla cucina a preparar la pappetta di farina e brodo che da qualche tempo risultava alimento appropriato e gradito al suo amico.
E dormiva, Cosimo, di un sonno sempre più profondo. E sovrumanamente quieto.
Possiamo a questo punto giungere a una seconda conclusione: il cambiamento è possibile solo facendo i conti, accettando la presenza degli altri, e smettendo di ignorarli o di guardarli – immaginarsi di poterli guardare – dall’alto, essendone riguardati con ammirazione.
Non c’è domani per chi immagina di poter badare a se stesso, e non sa vedere che ognuno di noi è gli altri. Ma non gli altri che siamo usi figurarci, spettatori appassionati delle nostra gesta, ascoltatori attenti delle nostre parole. No: gli altri in carne ed ossa che ci è dato di incontrare davvero, nella prossimità dei quali ci si trova, volenti o nolenti, a vivere.
Come il domandi sta nell’oggi, così gli altri sono quelli che davvero abbiamo intorno, non quelli che possiamo immaginare (magari attraverso i social…).
E Biagio?
Biagio lo ritroviamo, alla fine del mio racconto, seduto a pranzo con i due ufficiali, e la sorella Battista, la stessa che aveva cucinato quel giorno lontano e lumache rifiutate da Cosimo.
Ci trasferimmo nella sala: la sala da cui tutto aveva avuto inizio.
Mia sorella, colle proprie mani volle poggiare al centro della tavola il piatto che aveva preparato per in nostri ospiti, i primi che dopo anni sedessero a pranzare con noi. E che cosa fui costretto a vedere nel grande piatto d’argento che troneggiava fra le altre stoviglie? Lumache! Lumache che recavano ciascuna sul proprio guscio i colori dell’Union Jack!
Io mi estraniai da quella situazione grottesca, dimentico dei risolini di Battista, dei gentili quanto impotenti dinieghi del signor Davies e del prudente silenzio del signor Johnson, e in quella si fece strada nel mio animo – che era rimasto alle rivelazioni sulla fine di Cosimo – un motivo nuovo di commozione, e di speranza sarei per dire: forse, in quell’estrema, e non importa quanto poco intenzionale, risoluzione a scendere finalmente al livello medesimo degli altri potevo leggere anche i segni del perdono. Un perdono tardivo e pure per me denso di significato, e capace di riscattare l’intera mia esistenza: il perdono che finalmente da mio fratello mi giungeva di non essere stato io capace di seguirlo nel suo fiero rifiuto e di andar con lui sugli alberi. Il perdono per aver io condotto una vita regolata a pacifica, segnata fin dalla prima infanzia dalle parole che un giorno sì e uno no mi sentivo ripetere: in una famiglia, di ribelle ne basta uno.
E non esitai allora a rimandare alla cucina il piatto che era rimasto intatto innanzi a me: non ne voglio, di lumache: no, e poi no! risposi deciso allo sguardo sdegnato di mia sorella Battista.
E con questo il discorso può davvero concludersi: non solo chi è giovane è chiamato a fare e può fare scelte necessarie anche se impegnative, rischiose, a volte dolorose, per garantirsi una “vita vera”, non scontata, ripetitiva. Non solo chi è giovane: anche chi è vecchio: non si smette mai di sceglierla la propria vita, neanche nei giorni in cui sembra che non sia possibile farlo, nei giorni bui della tristezza o della depressione; e neanche quando sembra di non avere più il tempo necessario per sceglierla ancora la propria vita: neanche chi ha cinquant’anni più di voi può nascondersi dietro l’alibi dell’ormai sono vecchio: ci sono cose da fare, sempre, cose nuove. Come, per esempio, scrivere il seguito del romanzo che ho letto la prima volta in un’estate fra la seconda e la terza media, che ho poi riletto, e forse rileggerò ancora.