Che non avessi avuto figli lo sapevano tutti.
Non facevano parte della mia esperienza di vita i pianti notturni, le difficoltà del primo ingresso nel mondo esterno alla famiglia, le crisi adolescenziali. Non ne sapevo nulla, non mi apparteneva, non ci avevo infilato le mani, non avevo annusato, assaggiato, né scompigliato il mio mondo interiore al cospetto di un figlio da crescere.
C’era il ciclo della mia vita. Guardato a ritroso avanzava a grandi passi, mantenendo tutto sommato una linearità che rendeva coerenti i passaggi da una fase all’altra, la pertinenza delle scelte, il bilancio mai portato a termine di errori, pentimenti, successi.
Era stato così, un po’ camminando, un po’ correndo all’impazzata e a volte rimanendo immobile che avevo trascorso tutti i miei anni.
Ancor oggi sarei in grado di ricostruire in successione le epoche che mi sento addosso, ciascuna ben separata dalle altre.
Poi era arrivata lei, la figlia inaspettata che aveva confuso i piani, ribaltato l’ordinato succedersi delle età, preteso tempo e attenzione.
Lei ha tre amiche. Con ciascuna coltiva una diversa vicinanza, ed è a ciascuna di loro che affida i suoi segreti. Loro tre insieme sanno tutto di lei, conoscono la verità sui suoi sentimenti, su cosa pensa e desidera, sulle sue preoccupazioni, sulle relazioni che coltiva a mia insaputa.
Lo scopro sorpresa quando la vado a trovare nella sua casa fortezza.
Anche la casa conserva i suoi segreti. Me ne dimentico, perché lei mi consente l’accesso alle sue stanze, ai suoi cassetti, all’armadio in cui ripone i vestiti.
A volte però mi intima di lasciare stare, di non toccare, e se non le do retta si arrabbia di una rabbia lacrimosa che lamenta l’ingiustizia. Non è giusto che non rispetti i suoi spazi, come frugare nella sua intimità senza chiedere permesso. Quella rabbia si scatena contro il potere adulto del genitore verso il quale il suo io bambino niente può ancora fare.
E’ la frustrazione di chi subisce un’angheria, un comportamento prepotente contro cui nulla si può opporre. Rimango zitta, e il mio silenzio un po’ la intimorisce e un po’ la placa.
Qualche volta, con parole smozzate e mezze frasi, mi spiega cos’è, quell’oggetto che non devo toccare o vedere, da dove proviene, a cosa le serve. Omette sempre il perché non devo; l’ovvietà si frappone fra noi ristabilendo la dovuta distanza.
La conosco bene quella rabbia, la stessa che nutrivo io verso di lei.
Lei è molto piccola. Necessità primarie e improrogabili dettano il ritmo delle giornate, decidono i miei orari lavorativi, il tempo da dedicare alle passeggiate, quello in cui incontrare altre persone, occuparsi della casa, leggere o guardare la tv.
C’è poco da fare, quando arriva l’ora del sonno, del pasto, della defecazione o della minzione, non si può prescindere.
Per fidarsi, lei deve essere sicura che sia in grado di provvedere a questi suoi imprescindibili bisogni senza anteporvi null’altro. Per affidarsi, deve poter contare su di me.
Il tempo che le dedico non le basta mai, perché quello in cui vive si dipana con la lentezza cadenzata con cui si snocciolano i grani di un rosario, si allunga, si distende, parcellizzando i movimenti in una successione frammentata di piccolissimi gesti la cui imprecisa sequenza concorre al compimento dell’atto nella sua completezza. Starle vicino mi affatica – lo mordo il tempo io, lo cavalco, cerco di domarlo – e allo stesso tempo mi nutre di inaspettate scoperte che la corsa cela.
La studio, la osservo, e assieme a lei imparo i trucchi che ingannano la rigidità degli arti, truffano l’instabilità dell’equilibrio e le consentono una precaria, fragile, orgogliosa autonomia.
La accompagno in chiesa per la messa, ma non devo sbagliare: è una bambina, non può essere lasciata sola sul sagrato quando la celebrazione è terminata e tutti stanno andando via. Non può aspettare nemmeno cinque minuti, perché dentro di sé quel breve tempo si dilaterà fino a sembrarle un’ora o anche di più, mentre la sua mente avrà immaginato innumerevoli pericoli cui il mio ritardo la sottopone.
Si spaventa se non sono fuori ad aspettarla, perché non sa come tornare a casa e si sente abbandonata.
Quando la messa è terminata devo essere presente, visibile, pronta a prenderle la mano. Lei mi scorge da lontano, alza la testa verso di me e mi sorride, rassicurata, felice.
Devo avere fatto la stessa cosa le rare volte in cui era lei che veniva a prendermi a scuola.
Racconta, con lo sguardo levato verso l’alto, fatti e aneddoti, specialmente storie della sua gioventù e di quando noi, i suoi figli, eravamo piccoli.
Come accade ai bambini, nei suoi racconti la linea del tempo si confonde, è difficile districarsi fra il prima e il dopo, e non ricorda più episodi che pure fanno parte della mia memoria.
Sono io allora a ricordarle quante cose facesse, quanto tempo e fatica e impegno ci abbia donato. A modo suo, certo, come accade a ciascuno di noi, e l’aiuto a sospendere il giudizio.
Lei si sorprende, ascolta come se le svelassi assolute novità, e per i fatti più recenti, ho bisogno del calendario per aiutarla a riordinare la successione dei fatti.
E’ così che scopro di aver bisogno di un passato solo mio su cui contare, lei non mi conferma più la veridicità dei ricordi.
A volte a raccontare sono io. Seleziono per lei un linguaggio semplice, e le affido storie che possa trattenere, alla sua portata, che le permettano di dare forma a ciò che narro.
Il mercato dove ho fatto la spesa, un impegno lavorativo che mi ha fatto tribolare, qualcosa che è accaduto a un’amica, cose così, di tutti i giorni.
Lei mi ascolta attenta; la fronte corrugata e lo sguardo rivelano lo sforzo della comprensione. Vuole assimilare ciò che le dico, le servirà più avanti, quando lontana da me immaginerà le mie giornate.
Ma è più forte di lei. Come i bambini pare sollecitata da qualunque cosa le accada intorno. Il variare della luce, un colpo di vento, un filo che pende dall’orlo del mio vestito, un rumore lontano. Si distrae con facilità, mi interrompe, già attratta dalla minima trasformazione cui ha ceduto. Nel trascorrere dei giorni, la sua esistenza è organizzata in accadimenti minuscoli più importanti degli avvenimenti di rilievo.
Quando distoglie lo sguardo da me e indica l’impercettibile mutazione avvenuta intorno a noi, accondiscendo alla sua segnalazione e interrompo il mio racconto.
Proseguirò più tardi, le servirà a distrarsi quando dovrà lavarsi, prepararsi per la notte, riordinare i suoi vestiti sul sofà e finalmente, come dice, allungare le ossa…
Da quando ha cominciato a invecchiare è una ragazzina, e quando usciamo vuole essere elegante, sceglie con cura i vestiti, non sopporta che io non faccia altrettanto.
L’insicurezza dell’età si maschera dentro abiti di buona fattura. Vuole ascoltare complimenti, desidera stupire chi incontra rivelando la sua età.
Le piace svelare i suoi anni, ama sentirsi dire che ne dimostra meno.
Quando era mia madre, non aveva tempo per guardarsi allo specchio.
Correva, correva, correva sempre perché la sua famiglia abitasse una casa pulita e ordinata, mangiasse cibi gustosi cucinati da lei, indossasse abiti lindi e ben stirati, avesse i soldi per far fronte al presente e al futuro che alla fine sarebbe arrivato, foriero di incertezze e novità dal segno dubbio.
Non si fidava di me, dice. Parla di mio padre, suo marito.
Prima di morire, mio padre affidò a mio fratello, il figlio maschio ormai grande, la gestione di alcuni affari familiari.
Lei ne fu offesa, non si fidava, ripete.
Le dico che forse fu per metterla al sicuro che si rivolse al figlio: era grande, lavorava, chi meglio di lui avrebbe potuto tutelare i tuoi interessi?
Fra le mille preoccupazioni e affanni e dolore a cui ti condannava con la sua morte, babbo voleva sollevarti da questo ulteriore impegno.
L’ha fatto per aiutarti, sapeva che ci avrebbe lasciati, lo ha fatto per questo, le dico.
La rassicuro, prosciugando le lacrime che mi salgono agli occhi, e mi sembra di vederla sollevata.
Mi guarda piena di speranza, accordandomi la fiducia che non ha mai riposto in me.
Se glielo dico io che le sono un po’ madre, è possibile che sia proprio così.
Solo adesso ozia, ora che il suo corpo piccino richiede riposo.
Per tutta la vita ha ritenuto più importante fare, adempiere a ognuno dei doveri che si prefissava, proporsi nelle relazioni e nella vicinanza sempre con l’affanno di produrre, realizzare, portare a termine ciascuno degli obiettivi che determinava.
Le incombenze domestiche, quelle lavorative, il sostegno ai propri figli e nipoti, la disponibilità all’aiuto per le necessità della famiglia più estesa, sacro vincolo di relazione parentale. Ha iniziato a pensare anche a sé solo quando l’incedere degli anni le ha presentato il conto.
Fino a poco tempo fa, quando trascorreva qualche settimana a casa mia, si impossessava della cucina, faceva le pulizie, orgogliosa di darmi una mano.
Adesso cuciniamo insieme. Intendo distrarla dai suoi pensieri, glielo propongo perché non si annoi e per darle la soddisfazione di aiutarmi.
Preparo gli ingredienti che servono e le assegno dei semplici compiti. E’ una bambina, non cucina piatti complessi. Mentre assembliamo, mescoliamo, profumiamo con spezie, dosiamo con cura il giusto punto di cottura, le chiedo consiglio.
Che dici mamma? domando, per il solo piacere di ascoltare i suoi suggerimenti e farle sentire quanto necessaria sia la sua presenza.
E’ mia madre, ho imparato a cucinare guardandola e respirando il profumo dei suoi piatti.
Quando porteremo in tavola la pietanza, dirò ai commensali che l’ha cucinata lei, e che non ce l’avrei mai fatta senza il suo aiuto. Lei si schermirà, sorridendo compiaciuta per la buona riuscita del suo lavoro.
Non è la prima volta che la incontro. Da tempo, per come posso, me ne occupo con amore che credo materno.
Il tempo che trascorre moltiplica le sue età e anche le mie.
La sua vecchiezza me la mostra bambina, sempre più piccina, e mi insegna il futuro che, se avrò fortuna, verrà.
I miei cinquant’anni inoltrati mi sottopongono a un sovvertimento della regola che per decenni ha governato il mio corpo. In me si risvegliano turbamenti che credevo sepolti, incertezze e dubbi assai simili a quelli che mi offuscavano la vista quando il baratro che mi si parava davanti era l’età adulta. Anch’io sovrappongo e scompiglio le diverse età che mi compongono, e sono io, fiera della terra su cui so poggiare i piedi e fragile, fragile di fronte al cambiamento che mi depositerà in una più avanzata maturità, disposta a rinnovare una fase della vita nuova di zecca, emozionante e – immagino – più attenta alla ricerca della mia verità.
Insieme, io e lei intrecciamo sbadate età diverse. Corrispondono ai differenti modi di essere che abbiamo adottato negli anni, separatamente o in relazione l’una con l’altra.
E’ forse questo che mi disorienta. Quando è lei a essermi madre, mi trovo a riviverla con gli spigoli acuti che la caratterizzavano un tempo, confondendo la rabbia e l’amore, ma poi anch’io la sorprendo e mi confondo quando ad essere figlia è lei.
Questa alternanza continua di ruoli rende il nostro stare insieme un fluttuante andirivieni nella vita, mi ritrovo bambina desiderosa delle sue premure e madre, nervosa e stanca di doverle continuamente prestare attenzione, e poi di nuovo figlia, e così via, e lei anche sbanda da un ruolo all’altro, da un’epoca all’altra.
Insieme mettiamo in scena le tante donne che ci compongono, le lasciamo confrontare e rincorriamo le nostre identità, tutte quelle che abbiamo conosciuto finora. Ci facciamo forza, cercando cercando quelle che abbiamo desiderato, quelle che arriveranno, e impariamo, io da lei e anche lei, un po’, da me, che ferme non saremo mai, finché non allungheremo per sempre le ossa.
Maggio 2017, Manerbio