Scrivere per tenere lontana la morte, per un po’

Jón Kalman Stefànsson, Luce d’estate ed è subito notte, Paradiso e inferno, La tristezza degli angeli, Il cuore dell’uomo, I pesci non hanno gambe, Grande come l’universo (Iperborea 2011-2016)

Racconta di donne e uomini comuni, donne che guardano il mare in attesa dei loro uomini, pescatori,  e di villaggi sperduti fra ghiacci e nevi, “agli estremi confini del mondo”, in quel “paese inospitale”, in quella “grande isola solitaria” che è l’Islanda.

Eppure, lo sentiamo fin dalle prime pagine: parla anche di noi, Jón Kalman Stefànsson, perché sa, e non smette di dircelo, che le cose della vita, quelle che davvero contano, non sono poi molte e soprattutto non cambiano. Non che la storia non conti –  “non siamo indipendenti da ciò che ci circonda e da coloro che in realtà controllano tutto: le forze della finanza, gli interessi delle società, l’incantesimo meraviglioso del capitalismo” – ma alla fin fine le questioni sono quelle: la vita e la morte, così vicine fra loro; la domanda insopprimibile di un senso dell’esistenza, che il “pantano della quotidianità” offusca ma non può cancellare; lo spazio delle donne in un mondo in cui la verità è maschile. E la solitudine, che “è come un uccello che torna sempre a posarsi sul cuore”; il silenzio che erige muri fra padre e figlio, fra marito e moglie; una Natura – non solo l’ambiente, ma anche il corpo, che di colpo invecchia – estranea e impassibile, spesso ostile.
Può accadere, leggendo i romanzi di Stefànsson, di veder poco a poco delinearsi un volto che ci è familiare, quello di Leopardi, e non è solo l’ovvio ricordo dell’Islandese delle Operette morali a  richiamarlo, ma anche lo sguardo che lo scrittore posa sugli animali che “non pensano alla morte” perché “credono che la vita sia eterna” e non sono afflitti, come gli uomini, dal sentimento della caducità (“chi piange a un funerale, piange nondimeno la propria morte e quella del mondo, perché tutto muore e alla fine non resta niente”), non soffrono di quell’infelicità che solo la prerogativa dell’essere umano di “illudere se stessi” può alleviare.  Ma d’altra parte “chi non sfrutta le proprie capacità non potrà  mai essere felice, piuttosto vivrà nell’ombra della persona che non è mai diventato ma sarebbe potuto diventare”: seguire il proprio desiderio dunque, e affidarsi a quella che è la “sostanza della vita”, non temere il rischio dell’amore, “l’unica risposta verosimile alla morte”. Sono pieni di storie d’amore e disamore, di abbracci di corpi e di separazioni laceranti questi romanzi, trascinati da una forza vitale che non risolve mai il fondo di angoscia che abita l’esistenza ma ha guadagnato la consapevolezza che pessimismo e ottimismo non sono poli opposti e irriducibili ma sfumature cangianti di uno stesso sguardo, modi di stare nel mondo che la vita combina incessantemente.

La suggestione e la densità di questi temi non raggiungerebbero il lettore se il racconto non lasciasse continuamente spazio a lampi di riflessione, e la scrittura narrativa non assumesse a volte il passo dell’epica, o ancora più spesso s’aprisse a momenti di liricità che testimoniano della vocazione dello scrittore, autore di raccolte di poesie prima che di romanzi. Da sempre convinto, comunque, che “il potere e la ricchezza non si accompagnano mai alla  letteratura e forse è per questo che rimane così incorrotta, a volte l’unica resistenza degna di questo nome”.  Anche di fronte al disgregarsi di quella socialità che abbiamo trovato nei romanzi ambientati in un’Islanda di fine ’800, con la trilogia aperta da Paradiso e inferno, e appare invece solo un ricordo nella saga familiare che – con Grande come l’universo – giunge agli anni recenti della crisi, quando “questa nazione che in pochissimo tempo era diventata un modello, un esempio per l’Europa, poco dopo si è rivelata campionessa dello scatto ma un totale fallimento nel fondo”, e nelle piccole comunità in cui, un tempo,  “la vita diventa(va) più grande”, manca l’aria,  al punto che “chi ama l’Islanda a volte deve allontanarsene”.

Oggi tanto più occorre allora non dimenticare che “la vita cresce dalle parole, la morte dimora nel silenzio. Per questo dobbiamo continuare a scrivere, a raccontare, a mormorare versi di poesie e imprecazioni e così tenere lontana la morte, per un po’.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora


Dal Giornale di Brescia del 24 febbraio 2018.
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Un commento su “Scrivere per tenere lontana la morte, per un po’”

  1. Grazie per il commuovente e intimo incontro di ieri sera con Stefansson. Riporto la poesia, citata dal nostro, di
    Rósa Guðmundsdóttir conosciuta anche come Skáld-Rósa(1795–1855).

    Augun mín og augun þín, (My eyes and your eyes)
    ó, þá fögru steina (oh, those beautiful jewels)
    mitt er þitt og þitt er mitt, (mine is yours and yours is mine/what’s mine is yours, what’s yours is mine)
    þú veizt, hvað eg meina. (you know what I mean)

    Langt er síðan sá eg hann, (It’s been long since I last saw him)
    sannlega fríður var hann, (truly he was beautiful)
    allt, sem prýða mátti einn mann, (everything that is good in a man)
    mest af lýðum bar hann. (most of it he had)

    Þig eg trega manna mest (I miss you more than anyone)
    mædd af tára flóði, (tired of the flood of tears)
    ó, að við hefðum aldrei sést, (oh, if only we had never net)
    elsku vinurinn góði. (my dear beloved friend)

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