Romana Petri, Il mio cane del Klondike, Neri Pozza 2017 (pp. 205, euro 16)
Umanizzare il proprio cane, o saperne riconoscere l’alterità animale, anche quando è diventato uno di famiglia: chiunque ne abbia o ne abbia avuto uno sa che non è un’alternativa, e la strada che si percorre è sempre oscillante – comunque la si pensi, quali che siano i propositi che si fanno e le convinzioni che si crede di avere.
Abbiamo sotto gli occhi la signora che veste di cappottini colorati la propria bestiola già ai primi freddi ed è fra le prime a portarla alla pasticceria appena aperta per lei (la bestiola), così come conosciamo quello che lui animali in casa non se ne parla e il cane lo lascia fuori anche in inverno che si deve abituare. La padrona del cane di questo romanzo non si può identificare né nell’una né nell’altra posizione: Osac l’ha trovato ferito e moribondo, e non ha avuto cuore di lasciarlo lì, senza sapere che si stava portando in casa un selvaggio che sembra arrivato dal Klondike di Jack London. Eppure fra i due nasce l’amore, un amore esclusivo, per cui, quando nasce un bambino (lei è una ragazza madre, senza rimpianto di mariti, ma quella che racconta è la storia del cane, non la sua, lo ripete ogni volta che rischia digressioni autobiografiche e taglia corto) Osac è geloso, un pericolo per il piccolo. Lo deve lasciare alla madre, in campagna, e lui, il cane, sprofonda nella disperazione dell’abbandono e torna ad essere, dopo la parentesi domestica che è coincisa con l’amore per la padrona, il barbaro che non aveva smesso di essere: non è una selvatichezza ancestrale che torna a imporsi, ma una storia, la sua storia di cane abbandonato, un storia oscura, irraccontabile (solo gli umani raccontano la loro vita, o quella che credono tale).
Dopo pagine divertenti, piene delle bravate di Osac e della cocciuta e sempre ironica sopportazione della sua padrona, arriva la riflessione sulla vicenda, a dirci dell’ambivalenza che ogni rapporto con un animale (come tutti i rapporti importanti?) porta in sé e dei rimorsi che si lascia dietro: “Era un cane turbato”, “nessuno conosceva come me l’animo suo sempre in bilico, lì oscurità che o perseguitava (…) Un cane che viveva per lo più dentro il suo inferno, che lì si dibatteva, che da lì era in parte uscito quando ce ne vivevamo a Roma insieme, quando aveva creduto nelle promesse della vita nuova. E chi gliele aveva fatte ero stata io”.
Pagine che divertono. Commuovono a tratti, e si fanno struggenti, alla fine. Non riservate comunque solo ai cinofili, l’autrice ne è certa: hai probabilmente un cane “se ancora sei qui”, a leggermi – dice verso la fine rivolgendosi al lettore, “ma è altrettanto possibile che possano intenderci anche persone che di cani non ne hanno mai avuti, pur desiderandoli. Quelle persone che non hanno mai trovato le giuste condizioni: genitori compiacenti da piccoli, una moglie o un marito che compensassero da adulti. Anche queste persone, cui l’incontro vero è mancato, proprio per questo (…) dei cani degli altri, che vedono per strada, fanno un po’ di romanzo (…). Ce n’è di gente che sogna come sarebbe la sua vita se avesse un cane. E hanno poco da sognare, perché per quanto un cane la possa peggiorare, con un cane la vita è sempre un po’ meglio di cos’è senza.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora