Carlo Simoni, Il miserabile, Castelvecchi 2018
“Il miserabile, “l’infelice”: così Walter Benjamin era chiamato a Ibiza nelle due estati trascorse sull’isola nei primi anni Trenta, alla vigilia del suo definitivo esilio a Parigi. Un Benjamin trasandato nell’aspetto fisico, ben lontano dall’immagine trasmessaci dalle fotografie di Gisèle Freund. Eppure, proprio in quei stessi giorni il pensatore tedesco è impegnato in letture approfondite e nell’elaborazione di scritti decisivi, mentre la sua vicenda umana, segnata da momenti di crisi profonda, si intreccia ad amicizie e ad amori incontrati nel corso del suo soggiorno. I fatti narrati in questo romanzo trovano riscontro in ricostruzioni biografiche e cronache (in particolare quella di Vicente Valero, Experiencia y pobreza) e traggono spunto dalle lettere, dai saggi e dai racconti composti da Benjamin durante i mesi trascorsi a Ibiza. I caratteri, i comportamenti e le relazioni reciproche dei personaggi, invece, sono frutto dell’immaginazione dell’autore.
Quelle che seguono sono alcune pagine tratte dal romanzo:
1.
“La stanza non ha tende alle due finestre che guardano sul porto.
Era la prima cosa che facevo una volta, in una casa nuova: cercare il tessuto, scegliere i colori, tagliare e cucire le tende, appenderle dietro i vetri. Come a stabilire un confine, fra il dentro e il fuori, fra noi e gli altri. Anche se sono sempre stata di quelli che non sanno rinunciare a guardare nelle finestre delle case, quando ci passano davanti. Dal treno soprattutto, quando è buio e rallenta o addirittura si ferma poco fuori dalle stazioni: ci si viene a trovare vicinissimi alle case, spesso, ma più in alto della strada. All’altezza del primo, o del secondo piano. All’improvviso, spettatori di fronte a piccoli palcoscenici illuminati dove donne sole aspettano, o stanno sedute col marito e i figli a tavola. Oppure spazi vuoti di persone che però si sa che sono lì, in un’altra stanza, come fossero dietro le quinte, e di lì a poco dovessero comparire sulla scena. Non si riesce a distogliere gli occhi da quelle finestre, presi come da una nostalgia improvvisa, da un rimpianto per qualcosa che ci sembra di non aver avuto, che abbiamo presentito, molto tempo fa, ma non abbiamo poi potuto vivere. Senza voler immaginare che qualcosa di straordinario possa avvenire dietro quei vetri, non vogliamo perdere un attimo del tempo che ci è concesso dalla sosta imprevista. Come se quel che vediamo stesse per rivelarci un segreto che è sempre stato a portata di mano. Una verità che ci riguarda. Vicina e pure indistinguibile.
(…) È la casualità, insieme alla relativa brevità, di quelle fermate, a farcele sentire come occasioni da non perdere, per godere a pieno quello che ci possono dare. (…) Se la sosta dura più di qualche minuto, come senza dircelo avevamo temuto, sentiamo balenare in noi, che fino a quel momento avevamo sperato si protraesse, il desiderio che il treno si rimetta in movimento: sentiamo che la compiutezza del racconto appena intravisto rischierebbe di slabbrarsi nella trama banale di un romanzo sconclusionato, alla fin fine insensato. Come la vita.”
2.
“Era uno sguardo diverso, il suo. Gli occhi ridotti a due fessure dietro le lenti spesse degli occhiali senza montatura. Azzurri e distanti, e pure luminosi, attentissimi.
Li avevo sentiti su di me la prima volta che ci eravamo seduti a uno dei tavolini che ho ritrovato tali e quali, sotto le mie finestre. Era l’unico caffè allora, sul porto.
Non li aveva distolti quando avevo ricambiato il suo sguardo, ma mi ero resa conto che non guardava esattamente me, o non solo me. Quel che avevo intorno piuttosto. Mi guardava, ma allo stesso tempo – intendo dire – sembrava vedesse qualcosa che non coincideva con il mio viso, il mio corpo, e neanche gli stava dietro. Non era uno di quegli sguardi che ti oltrepassano, che ti attraversano come fossi trasparente, il suo. Non era oltre me quello che aveva fermato i suoi occhi: era attorno a me…
Mi guardava come se, più che vedermi, mi ricordasse, anche se mai ci eravamo visti prima. Era come mi ricordasse, sì, è forse questo il modo migliore per dirlo.
Jean aveva seguito il mio sguardo e, inaspettatamente, aveva raggiunto quell’uomo che, alzandosi dalla sedia aveva fatto a mio marito un piccolo, curioso inchino. Mi era parso un modo, più che affettato, un po’ stravagante di salutare.
Quando vennero da me e Jean me lo presentò, quella luce si era già spenta.
I suoi occhi erano distanti mentre, un po’ goffamente, accennava un baciamano.
(…) Nella lentezza di quell’uomo, nella sua trasandatezza, nella gentilezza un po’ antiquata che si distingueva a mala pena dall’indecisione che rallentava ogni suo movimento, ebbi subito la sensazione che si nascondesse uno spirito del tutto diverso: quel brillio degli occhi, quello sguardo penetrante che mi era capitato di vedergli la prima volta che l’avevo incontrato mi facevano supporre in lui un pensiero sempre al lavoro, una risolutezza di idee che smentiva la sua timidezza con gli altri, una passione di capire che non restava confinata ai libri, ma lo accompagnava in ogni momento. E non poteva non intralciarlo nella vita d’ogni giorno, quando era fra la gente.”
3.
Ero incuriosita di sapere dove andasse con i due o tre libri che si portava sottobraccio, l’altra mano occupata da una coperta che si era svolta e strisciava con un lembo per terra. Lo vidi scomparire fra gli alberi, ma non mi fermai. Camminavo con circospezione, per il timore di calpestare qualche rametto e farmi sentire. Credevo d’averne perso le tracce quando mi affacciai su una minuscola radura: era lì, e leggeva, seduto sulla sua coperta, la schiena poggiata al tronco di un pino, due libri accanto, fra l’erba, e su quelli un quadernetto aperto. Lo vedevo di tre quarti, lui non aveva avvertito la mia presenza. Leggeva, assorto, colla mano a far visiera sopra l’occhio destro, e fumava la pipa, spegnendo accuratamente il fiammifero e mettendoselo poi nella tasca della giacca, ad evitare che la minima brace potesse propagare il fuoco nel bosco. Già, era in giacca camicia e cravatta anche lì, per quanto malandate.
Di tanto in tanto interrompeva la lettura e volgeva gli occhi verso l’alto, tra le chiome degli alberi. Restava così a lungo, come immaginasse – pensai io – di poter essere lassù, fra le fronde che ondeggiavano alla brezza, a guardare il mare. Si spostò a un certo punto e, stesa la coperta sull’erba, ci si sdraiò, restando immobile, con gli occhi aperti però – riuscivo a distinguerlo – sulle foglie dell’albero sotto il quale si era steso. Poi si alzò. Ripiegò la coperta e si rimise seduto prendendo a scrivere sul suo quaderno, interrompendosi tuttavia di tanto in tanto a guardare ancora in alto, come a verificare la giustezza di quel che andava scrivendo confrontandolo con quel che aveva visto e vedeva lassù, e che tuttora lo rapiva, si sarebbe detto, tanto che sembrava distogliersene a malincuore, per ricominciare a scrivere. Quel guardare in alto, fra gli alberi, quell’essersi immaginato lassù fra le fronde, a tu per tu con gli uccelli che vi sostavano, sembrava dargli nuova ispirazione. Tornò poi al libro e dopo qualche minuto di lettura scrisse qualcosa nei margini della pagina. Ripose quindi la stilografica nel taschino della giacca e si mise a scartabellare fra le pagine di un altro dei volumi che s’era portato.
Mi fu chiaro in quel momento da dove gli venisse la calma che avevo sentito in lui, nelle sue parole. Era in un luogo come quello, in quel modo di stare che trovava la quiete, una quiete laboriosa, meditativa, feconda, e lui se l’era costruita, a Ibiza come dovunque il suo ininterrotto peregrinare l’aveva e l’avrebbe portato: camere d’albergo, stanze in affitto, case d’amici, tavolini di caffè, scompartimenti di treni.”
Ordini
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Recensioni
Dal Giornale di Brescia del 29 settembre 2018.
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Da Bresciaoggi del 9 novembre 2018.
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Dal Corriere dell’8 novembre 2018.
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Sono incantato, come già per L’incompleto conoscersi, dalla tua capacità di dare vita al contesto in cui la vicenda è ambientata. Si sente l’intreccio sapiente tra meticolosità dello storico, riflessione filosofica sull’opera del protagonista e una potenza immaginativa che sa stare ai fatti – o quantomeno alla loro credibilità – ma che sa anche dare spazio allo stupore e all’incanto (soprattutto nella prima parte).
Nel Miserabile poi c’è un sapiente gioco di specchi: se il centro dell’attenzione è Walter Benjamin, l’io narrante procede con sensibilità benjaminiana. Si viene così a creare una circolarità – quasi un girotondo – in cui è coinvolto anche il lettore. In fondo l’innamoramento della protagonista è appena più in là del sentimento di fascinazione che coglie molti lettori del grande studioso. E tu sai fare leva su questo, come a cercare una complicità con chi legge.
Avverto anche un debito verso Jules et Jim.
Verso il finale osi un passo in più, introducendo indizi che possono portare a giudizi negativi sul protagonista. Forse con questo hai inteso sfuggire al pericolo di una mitizzazione. O, forse, hai puntato su un’altra condivisione: la presa d’atto delle debolezze umane.
Insomma: una straordinaria conoscenza della materia trattata ben valorizzata da una grande capacità narrativa.
Quanto dici mi fa render meglio conto delle mie intenzioni. Succede quando si ha a che fare con un lettore come te.
Mi preme dire qualcosa sulla tua interpretazione dei fatti che ho introdotto verso il finale (e che, inutile dirlo, non sono documentati): certamente ha contato, non so quanto consapevolmente, la mia preoccupazione di non dare un ulteriore contributo a quella “santificazione” di Benjamin che, come è stato autorevolmente detto, finisce con il neutralizzare il perdurante e ancora attuale potenziale critico del suo pensiero. Ma c’è dell’altro: come spesso rivelano i “passaggi all’atto” – per usare il termine impiegato da psicanalisti e psichiatri – c’è un autolesionismo di fondo nel gesto del protagonista, un paradossale far qualcosa di cui sa che dovrà vergognarsi. Non è un caso che, come apparirà chiaro nei giorni seguenti alla sua partenza da Ibiza, quello sia il periodo in cui più insistito che in altre circostanze si farà strada nella sua mente il proposito del suicidio (non attuato nel ’33 ma, come pare ormai assodato, sette anni più tardi). La disastrata e pure intensa vita sentimentale dell’uomo non credo sia parte secondaria della sua figura, e quindi ho voluto non mancasse il riferimento ai suoi notori, frequenti innamoramenti, ma anche – mi è parso lecito arguire – al suo non saper/non voler cogliere l’amore quando ne avrebbe avuto l’opportunità…
In qualche modo avevo intuito il tuo intento. Alla fine scegli di far precipitare la narrazione (e il lettore): di farla fuoriusce dall’aura e dalla tentazione semplificatrice (la santificazione). In questa mossa (destruens) c’è un grande coraggio, così come c’è grande intelligenza del cuore nell’ascesa (construens) della prima parte.
Il tema centrale del Miserabile, a ben vedere, è la vertigine. Una sfida che hai in buona parte vinto.
Non sono un gran lettore di narrativa, ma, come accade (non credo solo a me) coi bei libri, caro il Simoni, mi congedo malvolentieri dal suo Benjamin ‘miserable’. E difficile. Immagino le difficoltà che ha
incontrate. Ci vuole dell’abilità costruttiva, e tanta complicità coi
personaggi. E, soprattutto, una misura, una sorta di discrezione. Lei
ha tutto questo.
Gilberto Lonardi (critico letterario e storico della letteratura, professore emerito dell’Università di Verona)