Gianluca Barbera, Magellano, Castelvecchi 2018 (pp. 237, euro 17,50)
“Quando il palato si ribella davanti alla scipitezza del riso bollito senza alcun ingrediente, si sogna il grasso, il sale, le spezie”, sentenziava lo scrittore indú citato da Braudel (Capitalismo e civiltà materiale), ma la passione per il pepe, la cannella, i chiodi di garofano, la noce moscata, oltre che nell’Islam e in Cina, agli albori dell’età moderna era viva in Europa soprattutto, dove le tavole dei signori esigevano sapori ricercati e forti. Si spiega allora come mai persino “i sogni degli scopritori” agli inizi dell’età moderna dipendessero dalle spezie, tanto più dopo che, nel Cinquecento, in conseguenza del periplo dell’Africa compiuto da Vasco de Gama, le spezie affluirono in quantità maggiore in Europa raggiungendo anche i paesi del Nord.
È nel quadro di questa epopea delle spezie – recentemente ricostruita attingendo alle fonti più diverse da Orazio Olivieri (L’età delle spezie. Viaggio tra i sapori, dall’antica Roma al Settecento, Donzelli 2018) – che si collocano la vicenda di Ferdinando Magellano e della prima circumnavigazione del globo, e in questa, la storia di Juan Sebastiàn del Cano, personaggio storico e coprotagonista del romanzo di Barbera. La dice lunga il fatto che “due bastoncini incrociati di cannella con noci moscate e chiodi di garofano sormontati da un elmo che regge la sfera terrestre” campeggino nello stemma che quest’uomo si conquisterà al ritorno da un viaggio durato tre anni, durante il quale quattro delle cinque navi partite sono andate perdute e lo stesso Magellano è morto. Di queste drammatiche peripezie si occupa il romanzo, ma anche di figure indimenticabili: quella dello stesso Magellano, in primo luogo, portoghese che naviga in nome del re di Spagna, ammiraglio che deve farsi obbedire da capitani che proprio per la sua origine lo guardano con sospetto, e non potrebbe essere diversamente in anni nei quali le due potenze marinare si disputano il dominio delle terre d’oltreoceano, non ultime le Islas de la Especerìa, le Molucche, che rappresentano la meta che Magellano vuol raggiungere non doppiando il Capo di Buona Speranza ma cercando un passo che gli permetta di portar le sue navi dall’Atlantico al mare sconosciuto e sterminato che non aveva ancora nome, e che proprio Magellano chiamerà, “non senza irritazione”, Oceano Pacifico dovendone scontare l’“eterna bonaccia”.
È “un fanatico calmo”, quest’uomo zoppicante ma instancabile, “un individuo enigmatico, murato in una specie di mutismo rancoroso”. A rendere la complessità del suo carattere non è la voce di un narratore onnisciente, ma quella di un personaggio implicato nella vicenda, che si fa così mediatore essenziale tra il lettore e il personaggio del grande navigatore: quel Sebastian del Cano che fin dall’inizio esplicita la ragione che lo porta a scrivere. Il romanzo che leggiamo è il suo resoconto, una sorta di espiazione dettata dal desiderio di liberarsi dai fantasmi che lo perseguitano da quando ha tradito, e non una volta sola, il suo comandante, giungendo ad usurpare gli onori e la gloria dell’impresa. Dalla consapevolezza dichiarata della sua colpa, dal bisogno di risolverne il peso in un racconto dettagliato dei fatti, dalla denuncia imparziale e severa della propria doppiezza emerge la seconda figura cui l’autore sa dare una consistenza convincente e suggestiva: si direbbe che del Cano guardi nell’“abisso” della propria interiorità con uno sguardo non dissimile da quello che rivolge alle terre in cui via via si imbatte ed ai costumi, ora pacifici ora sanguinari, dei loro abitanti.
L’immaginario che dobbiamo a Stevenson e Conrad – ma anche a film come Gli ammutinarti del Bounty o Master and commander – pervade le pagine, “tra l’odore della pece e della canapa, lo stridio delle pulegge di bosso sotto le drizze, il suono dei magli sui ferri e i fischi e le grida dei marinai”. Ma più di tutto è un sentimento dell’altrove, dell’inesplorato, a saper ancora raggiungere lettori quali siamo noi che viviamo in un mondo ormai senza segreti, ma non dobbiamo dimenticare – sulla scorta di Italo Calvino – che se “Scoprire il Nuovo Mondo era un’impresa difficile”, “ancora più difficile era vederlo, capire che era nuovo, tutto nuovo, diverso da tutto ciò che ci si era sempre aspettati di trovare come nuovo”.
In conclusione, un romanzo storico, questo Magellano, non piegato a farsi “strumento ideale per fare ideologia”, caricandosi di allusioni politiche all’oggi come spesso fanno narrazioni riconducibili a questo genere letterario – lo nota Gianluigi Simonetti nel suo La letteratura circostante (Il Mulino 2018) – e men che meno assimilabile alle “postmodernissime finzioni metastoriche” inaugurate dal Nome della rosa, o ai romanzi – storici ma ibridati con il thriller e l’inchiesta – sulla scia dei Wu Ming: è piuttosto “il piacere del racconto puro”, la “narratività” che era “caratteristica del romanzo storico classico” a connotare il libro di Gianluca Barbera.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora