Virtus Zallot, Con i piedi nel Medioevo, Il Mulino 2018 (pp. 220, euro 25,00)
In anni non tanto lontani – anni Cinquanta, su per giù – le persone ammodo non dicevano piedi. Dicevano estremità.
Un pudore di cui non avrebbero probabilmente saputo spiegare le ragioni, ma di cui si può trovare un corrispettivo nell’atteggiamento degli storici dell’arte, grandi indagatori delle movenze e delle posture di braccia e mani, ma assai poco propensi ad abbassare allo sguardo. Alle estremità, appunto. Lo nota Chiara Frugoni – la grande medievista della quale l’autrice si dichiara allieva – che nella sua prefazione ricorda una zia che ogni volta che doveva nominare le estremità premetteva un compito “con licenza parlando”. Un fare ben diverso da quello del Nanni Moretti di Bianca, il cui sguardo è appunto ai piedi che ossessivamente corre ( “Ogni scarpa una camminata. Ogni camminata una diversa concezione del mondo”).
Tutti atteggiamenti nei quali si possono rintracciare i segni di una storia che affonda le sue radici in secoli lontani, una storia ricostruibile innanzitutto sulla base del patrimonio iconografico che il passato ci ha consegnato: “Nella società medievale piedi e calzature erano figure parlanti”, avverte l’autrice aprendo il suo saggio, e nelle immagini del Medioevo “contribuiscono a definire la condizione fisica ed esistenziale delle figure”, “raccontando storie e frammenti di Storia” a chi, come Virtus Zallot, a una lettura estetico-stilistica antepone un’indagine iconografica che prescinde dal valore artistico, coerentemente occupandosi più di opere minori – bresciane, in alcuni casi – che di capolavori.
E’ quindi la grande lezione della storiografia delle mentalità, della vita quotidiana e della cultura materiale a innervare le competenze storico-artistiche e a permettere di far emergere un “linguaggio dei piedi”, una gamma di “gesti e usi che ancora ci appartengono” e sono documentati da una straordinaria, capillare analisi. Dai piedi mostruosi o diabolici a quelli “che soffrono” – i piedi dello storpio, “bisognoso per antonomasia” nell’arte del Medioevo –, ma, si badi, se è una spina conficcatasi nel piede quella che fa soffrire, si tratta in realtà d’altro: “la spina è peccato da estrarre ed espiare”, così come avere i piedi calzati o scalzi era un dato carico di valenze simboliche, “che elevava o declassava, proteggeva o esponeva”- Del resto, scalzare non significa ancora oggi declassare, compromettere l’autorità o il ruolo di qualcuno? Mentre scalzarsi poteva suggerire la volontà di abbandonare il peccato, sempre che non alludesse a una precisa e a suo modo polemica dichiarazione: si pensi ai primi francescani (o, per altro verso, ai “medici scalzi” della Cina di Mao). Analogamente, in un gioco di rimandi e simbolismi che ha in molti casi perduto per noi l’immediatezza del suo significato, lavare i piedi – e far levare le scarpe a chi arriva – è espressione di cortesia, umiltà o addirittura deferenza al limite della devozione; calcare i propri calzari su draghi e diavoli (o eretici), calpestarli insomma, è il segno della vittoria sul male, o sulla morte; accostare il proprio capo a piedi altrui, prosternandosi, dice della reverenza assoluta di chi può giungere – o è richiesto, se al cospetto del papa – a baciarli (senza per questo aver nulla a spartire con l’inclinazione adulatoria e servile del leccapiedi). La preziosità dell’appoggio offerto ai piedi può indicare lo status del personaggio, i cui piedi godono in questo modo del privilegio di non toccar terra, che li sporcherebbe, ma conta soprattutto, in questo senso, la foggia dei calzari, prodotto dell’arte dei ciabattini e dei calzolai non di rado presenti nell’iconografia medievale, figure di artigiani con i quali si conclude questa rassegna, sorta di andirivieni colto e accattivante – grazie anche a un vasto apparato di immagini – fra sacro e profano, fra storia dei privilegiati e vicende di gente comune, fra arte e immaginario.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora