Ludovica Danieli, Donatella Messina, A scuola di autobiografia. Gràphein, Mimesis 2018 (pp. 140, euro 12)
Il sottotitolo rimanda alla pratica alla quale la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari da vent’anni avvicina coloro che, secondo percorsi e gradi di approssimazione diversi, hanno individuato nella scrittura una risorsa per la vita e nello scrivere di sé la via per accedervi (“Il progetto di scrivere la mia storia ha preso forma quasi contemporaneamente al progetto di scrivere”, diceva Georges Perec). Una Scuola di scrittura autobiografica, quindi, che tuttavia non si può confondere con le numerose scuole di scrittura che al di là delle intenzioni, finiscono nella maggior parte dei casi per limitarsi a trasmettere regole e tecniche, più o meno efficaci.
I presupposti della Lua e le sue finalità traggono spunto dal pensiero di Duccio Demetrio e dalla sua concezione dell’autobiografia come cura di sé (come recitava il titolo del libro pubblicato alla vigilia dell’avvio dell’esperienza di Anghiari: Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Cortina 1996). “Un luogo accogliente, tranquillo, silenzioso” e la possibilità di godere di un “tempo per sé” sono dunque ciò che in primo luogo si offre: silenzio e solitudine, condizioni ma anche sostanza dello scrivere, insieme tuttavia allo scambio, a un confronto con gli altri improntato alla “cura”, intesa come forma della relazione, e alla sospensione del giudizio sulla propria e l’altrui scrittura. È lo “stare individualmente insieme” di cui parlava Bauman, la condizione di fondo che si persegue, il quadro entro il quale lo scrivere di sé può evitare il rischio del ripiegamento narcisistico e l’illusione dell’autosufficienza per consentire invece un avvicinamento al “nucleo centrale” che costituisce ognuno di noi, che ci fa simili e allo stesso tempo unici. Avvicinamento, mai compiuto disvelamento, perché la scrittura non ci restituisce una verità, oggettiva e inconfutabile, su noi stessi e la nostra vita, ma permette di individuare i nodi della nostra esistenza riattivando la memoria, rivisitando i ricordi, recuperando la dimensione collettiva entro la quale si sono formati.
Non è un’operazione semplice, attuabile a partire semplicemente dal desiderio di scrivere di sé: incertezze e resistenze vi si oppongono. Occorre interrompere la “voce interna che sembra colonizzare il pensiero”, sono necessari il coraggio di esporsi e insieme l’umiltà di riconoscere il proprio limite per accettare e dar corso all’umana aspirazione a lasciare una traccia della propria storia.
È per questo infatti che si scrive, secondo molti che della scrittura hanno fatto il loro lavoro: si scrive perché si ha paura della morte, ma anche perché si ha paura della vita; si scrive per dare sbocco alla nostalgia dell’infanzia, ma anche per attenuare il rimpianto, o il rimorso, per le scelte non fatte, che hanno determinato la nostra vicenda quanto quelle fatte, e dunque per “avvolgere il dolore in una rete di parole”, per riuscire a sentirlo come parte ineliminabile e costitutiva di sé; si scrive dunque per trovare un senso della nostra esistenza. Ma anche per giocare: per giocare con la serietà di cui sono capaci i bambini.
Non solo il coraggio di osare e l’umiltà di farlo con senso della misura, occorrono per scrivere, ma anche introspezione e insieme presa di distanza da se stessi, quella sorta di “bilocazione cognitiva” che si rivela come un guadagno sul piano della conoscenza di sé, ma anche su quello più propriamente esistenziale, incoraggiando la rinuncia a collocarsi sempre “nel fare, nell’agire, nell’accelerare”, quando invece si tratta, scrivendo, di “rallentare, fino a fermarsi, rispettare le indecisioni, le interruzioni, le soste e gli intermezzi”. Una sospensione della logica dell’efficienza è necessaria, un sottrarsi al dominio della ragione strumentale che governa i nostri giorni.
Scrivere, come risulta evidente, è sempre riflettere sullo scrivere, ad Anghiari. È recuperare la fiducia, il rispetto delle parole in tempi nei quali sono spesso piegate ad assumere significati diversi o addirittura opposti al loro. È riconoscere la propria identità in tempi nei quali essa sembra dipendere da imprecisati quanto aggressivi distinguo fra noi e loro. Nella consapevolezza, sempre, che “la scrittura non salva ma ripara”, e “rivitalizza l’invito ad esserci, perché “la penna diventa l’oggetto simbolico attraverso i quale ci si riconnette al sentimento più vasto dell’arrendersi alla vita”.
L’unico modo per viverla davvero, forse.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora