Lisa Ginzburg, Pura invenzione. Dodici invenzioni sul Frankenstein di Mary Shelley, Marsilio 2018 (pp. 109, euro 12)
Se della vicenda conoscete solo la trasposizione cinematografica di Frankenstein Junior, niente paura: anche l’autrice è partita da lì, non sapeva nulla del libro di Mary Shelley prima di leggerlo, rileggerlo e darcene una lettura che non è solo un’analisi originale, ma soprattutto il tramite di una nuova storia che riflette in un gioco di specchi la vicenda della scrittrice inglese, quella dei suoi personaggi – sia il medico visionario che il “Mostro” – e la vicenda dell’autrice stessa. Un gioco di specchi che si annuncia sin dalla copertina, dove titolo e sottotitolo si dispongono specularmente, e si traduce in una serie di rimandi, pertinenti quanto inattesi: la “straziante solitudine” del Mostro sono analoghi all’autocommiserazione di Frankenstein (che è il medico, non come spesso si crede, la sua creatura): “I toni derelitti usati da entrambi sono speculari (…) il creatore lamenta la sconfitta, le conseguenze della propria hubris; il Mostro piange l’amore che gli è mancato – quello di una donna, ma anche quello di un demiurgo/padre.” Sennonché quest’ultimo non riconosce nel Mostro la propria creatura, che a sua volta non può quindi riconoscere nel suo creatore un padre: è da una tale “reciproca, irrimediabile delusione”, che nascono il risentimento, la rabbia. Dei protagonisti. Ma anche di lei, Mary Shelley, rimasta per sempre segnata dalla ferita inferta dalla morte della madre, ferita e indotta a un risentimento che solo nella “pura invenzione” sa trasfigurarsi e dar luogo al lungo racconto che la renderà capace di affrontare la propria condizione di “brava figlia di due persone di preclara fama letteraria”. Ed è qui che anche l’immagine della Ginzburg entra nella storia: “che altro potrei fare – si chiede – vista la mia storia e l’ambiente in cui sono cresciuta?” Che altro se non scrivere? Gli interrogativi che si pone Lisa Ginzburg – nipote di Natalia, figlia di due storici come Carlo Ginzburg e Anna Rossi Doria – sono in tutto simili a quelli con cui si era misurata Mary Shelley: “proprio perché è tanto poco sorprendente che lo faccia, come riuscire, come trovare un modo, un cammino che sia davvero mio?”. E come sentirsi legittimati a seguire questa strada se non ottenendo il riconoscimento di chi quella stessa strada ha, di fatto, indotto a intraprendere? Solo cinque anni dopo la pubblicazione di Frankenstein, il padre di Mary le comunica la propria ammirazione: “Io – confessa Ginzburg – simile legittimazione non l’ho avuta: forse anche per ciò tanto mi emoziona ricordare come l’ho trovata in mia madre, e viceversa sono colpita quando riscontro nelle storie di altri l’incoraggiamento da parte dei loro padri. Basica invidia, la mia: sentirsi appoggiato nei propri talenti, e prima ancora, nelle inclinazioni, sempre, è apparso il dono più grande, il miglior battesimo che si possa ricevere da un genitore.”
Dall’intrico dei richiami e delle analogie in cui il lettore si trova coinvolto, sono le motivazioni e la possibilità stessa di scrivere ad emergere e precisarsi in approssimazioni successive e sempre più stringenti in un libro che nasce dall’incontro con un altro libro, dal quale l’autrice si lascia attraversare ingaggiando un corpo a corpo con la vicenda e le parole di un’altra scrittrice: un caso esemplare di quel lasciarsi leggere dal libro che si sta leggendo di cui ha recentemente scritto Massimo Recalcati (A libro aperto. Una vita è i suoi libri, Feltrinelli 2018).
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora