Non mi lasci qui, vero mamma?
La voce lacrimosa della bambina, diffusa fra i banchi della classe, aveva ramificato veloce fra le sedie e afferrato le caviglie della mamma, già sulla soglia. Un’incertezza l’aveva arrestata, prima di proseguire decisa oltre gli stipiti della porta, senza farle decidere di voltarsi.
Non era nei patti, la bambina lo sapeva.
La mamma glielo aveva ripetuto molte volte nei giorni precedenti, mentre le mostrava quello che aveva acquistato per lei, per il suo primo giorno di scuola. Scarpe bianche di pelle con la fibbia dorata, calzettoni traforati bianchi di cotone, e il grembiule, tutto bianco anche quello, con le tasche a toppa. Un nastro rosa da annodare intorno al colletto.
In prima elementare ci vuole rosa il fiocco, diceva la mamma.
C’era anche una cartella color vinaccia e un astuccio verde rettangolare pieno di matite appuntite e colorate che la bambina non avrebbe dovuto perdere mai.
La bambina sapeva che sarebbe arrivato il tempo in cui anche lei avrebbe cominciato ad andare a scuola. Suo fratello lo faceva ogni giorno, a parte in estate. Usciva la mattina e tornava all’ora di pranzo. Quello che proprio ignorava, era cosa avrebbe dovuto fare, a scuola.
Imparare a leggere e a scrivere. Ma che voleva dire imparare?
Una brava bambina come lei non avrebbe pianto, il primo giorno di scuola. Si sarebbe seduta al posto che le avrebbero assegnato e subito, subito ripeteva la mamma, avrebbe dovuto ascoltare ciò che aveva da dire la maestra.
In effetti, la signora maestra parlava, e scriveva su una parete nera sovrapposta al muro con delle penne corte, i gessi; la parte nera, aveva imparato, si chiamava lavagna.
La bambina sapeva cosa significasse scrivere. Lo facevano tutti in famiglia a parte lei. Quello che non riusciva a capire era come fosse possibile riprodurre sul foglio a quadretti del suo quaderno i segni che la maestra depositava sulla la-va-gna.
Era consapevole di non essere all’altezza. Non certo lei avrebbe potuto esserne capace. Altri forse. La mamma, suo fratello, il babbo. Forse anche la zia. Ma certo non lei.
La bambina si trovava quindi in una situazione difficile. Per la prima volta nella sua vita era stata affidata a una persona che non conosceva, insieme a molti altri bambini che parevano sicuri e contenti di trovarsi tutti insieme in quella stanza che si chiamava aula. Prima A, era il nome della classe.
Ora si ritrovava sola e sottoposta a delle richieste che in nessun modo avrebbe potuto soddisfare. Probabilmente questo le avrebbe causato dei problemi e, per la prima volta nella sua vita, non avrebbe potuto chiamare mamma.
Questa, bambini, é la data di oggi, e d’ora in poi ogni giorno la scriveremo sul nostro quaderno. Coraggio, ricopiate dalla lavagna: 1 ottobre 1968, martedì.
Le scarpe bianche con la fibbia dorata le facevano dolere le dita dei piedi, e i calzettoni traforati le scivolavano lungo il polpaccio. Se avesse potuto concederselo, avrebbe urlato che le odiava, quelle scarpe bianche, e che lei a scuola non ci sarebbe andata mai più, mai più, è chiaro?
Ma non era nei patti. Lei era una brava bambina che non avrebbe fatto stare male la mamma. Non poteva andare a lavorare, la mamma, con il pensiero che lei facesse le bizze.
Si sarebbe seduta brava al suo posto e avrebbe ascoltato la signora maestra.
Però la mamma non le aveva detto che la maestra le avrebbe chiesto di scrivere.
Lei non sapeva scrivere, non era all’altezza del compito che le veniva richiesto, non ce l’avrebbe fatta mai. Impossibile.
Coraggio, copiate, non importa come lo fate, adesso passo fra i banchi e vi aiuto io.
La bambina si trova davvero in una brutta situazione.
Prima di andarsene, la mamma le ha aperto l’astuccio, che così spalancato sul ripiano del banco deve essere controllato, affinché nessuna delle matite si perda. A fianco il quaderno a quadretti mostra sulla copertina pesciolini colorati che nuotano in mezzo a piante acquatiche.
Deluderà tutti, nessuno le vorrà più bene.
Non la mamma, che tanto si era raccomandata. Devo lavorare, lo sai. Non mi far stare in pensiero. Ascolta quello che dice la maestra e mi raccomando, non piangere.
Non la maestra, che si farà una pessima opinione di lei, una bambina incapace di scrivere.
Non gli altri bambini, che aprono il quaderno, impugnano il lapis e aspettano fiduciosi la maestra.
Non suo fratello, che la prenderà in giro come quando le ha insegnato ad andare in bicicletta.
Forza, non guardare la ruota, dai, alza la testa, pedala… Glielo ripeteva di continuo sulla strada di campagna dove l’aveva portata. Su entrambi i lati scorrevano fossi colmi di acqua scura su cui fioriva l’opaco giallo di una sorta di micelio da cui lei non riusciva ad alzare lo sguardo. Ne aveva paura. Non di cadere, no. Era l’acqua nera in sé che la spaventava, ma certo non poteva dirlo a quel fratello così grande che quando si occupava di lei sembrava sempre un po’ annoiato. Non era nei patti. Aveva impegnato una domenica mattina per insegnarle ad andare in bicicletta, non poteva certo dirgli che voleva tornare a casa, possibilmente a piedi.
Ne è sicura. Bruscamente lui le dirà che una come lei non imparerà mai a scrivere.
La maestra cammina fra i banchi. Si avvicina a ciascun bambino, controlla quello che ha scritto e poi sorridendo lo esorta a riprovare, accompagnandogli la mano con la propria.
La bambina adesso è terrorizzata. La maestra arriverà anche da lei, e allora si accorgerà che non ha scritto niente. Si arrabbierà, lo dirà alla mamma, e lei a suo fratello. Tutti insieme, la sera, lo riferiranno al babbo, che la guarderà severo.
Sei una mangiapane, le dirà. Non sai scrivere. Batterà la mano sul tavolo e tutti, dopo, finiranno la cena in silenzio senza più gusto. La manderanno a dormire senza farle guardare Carosello, e parleranno di lei, maledicendo la sfortuna di avere avuto una figlia così buona a nulla. Meno male che abbiamo lui, diranno, carezzando la testa del fratello.
Eccola, è già arrivata al banco dietro al suo; non si volta, eppure la bambina avverte chiaramente lo sguardo di rimprovero della maestra sfiorarla e depositarsi sulla pagina bianca.
Adesso è qui, proprio accanto a me. Avvicina il suo volto al mio, ormai rigato di lacrime.
Ha così tanta voglia di sfogare liberamente il pianto che le duole in fondo alla gola. Sembra che i capelli, il naso, la pelle gemano lucciconi che le bagnano il viso. La bocca, chiusa dal morso dei denti sulle labbra, a un tratto si spalanca, cede come una diga e lascia uscire in un fiotto un unico enorme singhiozzo che diventa un urlo, e in quel grido racimola tre parole che scaglia nella classe come una grandine: non so scrivere!
Bene, dice la maestra, va molto bene che tu non sappia scrivere. Sei venuta a scuola per imparare, come tutti. Ti aiuterò io, non avere paura.Quando suona la campanella la maestra consente a tutti di alzarsi per fare una cosa molto difficile da pronunciare, la ri-crea-zio-ne.
Con il suo permesso si può andare in bagno due per volta, lavarsi le mani, e dopo mangiare lo spuntino portato da casa.
La bambina non si muove dal suo posto e nemmeno tocca il sacchetto a quadretti rosa, ricamato con il suo nome. La mamma ci ha infilato un tovagliolo, la bottiglietta di plastica bianca con l’acqua, un pezzettino di schiacciata con l’uva, ma la bambina è stremata, non vuole mangiare né bere.
La maestra le si siede accanto, non sembra arrabbiata. La bambina non ha dimenticato ciò che le ha detto poco prima, ma non sa se fidarsi.
O, dice la maestra, una letterina rotonda. Per farla parlare bisogna aprire la bocca, così: o.
Ha bisogno del respiro per avere il suo suono, la o di oca, di orso e di ottobre. Oooooo, la letterina che ci meraviglia, dice la maestra.
Un gioco irresistibile.
La maestra aiuta la bambina a osservarla, la lettera O, a sentirla dentro il petto, a cantarla e infine a riprodurla.
La mano incerta s’affida e infine riempie di piccoli cerchi imperfetti la prima pagina del quaderno.
Per la bambina non fu mai facile, nei cinquant’anni che seguirono, ammettere la propria forza e la capacità della propria intelligenza.
Sempre le fu d’aiuto il potere delle parole, che una maestra le insegnò ad amare